L'architettura nella natura

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Il rapporto tra architettura e natura ha origini antichissime. I villaggi e le città sono sorte nei luoghi più favorevoli: sulle sponde di un fiume o in un golfo sulla costa per poter utilizzare l’acqua come strada per i commerci e per il sostentamento. Oppure in cima a una collina per difendersi dai nemici e controllare il territorio. Inoltre, i materiali necessari alla costruzione degli edifici erano quasi sempre reperiti in loco, cioè quello che la natura metteva a disposizione, dal legno delle Alpi alle pietre dell’Appennino.
Attraverso il progresso tecnico e alla facilità di reperire materiale anche a centinaia di chilometri, l’uomo ha iniziato a pensare di poter costruire senza dover “rendere conto” alla natura. Così dal modernismo nasce un’architettura universale per la quale il progetto diventa astratto e la sua realizzazione possibile in qualunque luogo e con qualsiasi materiale. Strutture che potrebbero essere ovunque, ma sempre estranee al paesaggio. Così abbiamo visto sorgere palazzi di sei o sette piani in villaggi di montagna, enormi caserme tra dolci colline o giganteschi condomini in riva al mare. Nel linguaggio giornalistico edifici completamente avulsi dalla realtà circostante vengono spesso chiamati “ecomostri”.
Secondo Vittorio Gregotti, al quale è dedicato un ampio articolo su questo numero, l’architettura deve entrare in vibrazione con il contesto o non è. Per Frank Lloyd Wright, fondatore dell’architettura organica, va rifiutata la mera ricerca estetica o il semplice gusto superficiale. Per l’architetto americano la progettazione architettonica dovrebbe creare un’armonia tra l’uomo e la natura, costruire un nuovo sistema in equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale attraverso l’integrazione dei vari elementi artificiali e naturali. Ne è l’esempio più lampante la sua Casa sulla cascata (Casa Kaufmann) del 1936 dove l’edificio appare come la sorgente dell’acqua che scende giù per un breve salto.
 
 
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Gregotti, l’architetto: “Un progetto deve sempre guardare al contesto”
Gregotti Associati, Progetto della sede della Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli, Milano, 1981. ©Comune di Milano, CASVA   Nonostante il grande successo riscontrato in tutto il mondo, la sua vita professionale ha avuto anche qualche ombra. Due sono le opere molto controverse che hanno visto lunghi ed estenuanti dibattiti e svariate critiche: il quartiere Zen di Palermo e l’Università di Arcavacata in provincia di Cosenza. A Gregotti l’architettura italiana deve molto, soprattutto deve la sua diffusione internazionale, grazie alle sue partecipazioni a corsi e conferenze in Gran Bretagna, Giappone, Stati Uniti e America del sud. Ha tenuto negli anni la rotta senza ascoltare il canto delle sirene che lo invitavano a seguire le mode del momento. I suoi progetti ponevano l’arte (in tutte le sue sfaccettature) al centro. Il suo amore per la musica lo si rintraccia nel progetto del Centro Culturale di Belém, firmato con Manuel Salgado. Qui Gregotti propone un ambiente interno che reinterpreta il teatro lirico: nel volume, quasi cubico, gli ordini dei palchi si allineano su pareti che piegano ad angolo retto, smontando completamente l’idea delle “finestre” che si affacciano sulla platea del tradizionale teatro a ferro di cavallo. Sempre alla musica è “consacrata” la sua sperimentazione sugli edifici che ospitano eventi musicali realizzata con il Teatro degli Arcimboldi, immaginato per sostituire la Scala in un periodo di profonde ristrutturazioni. Se a Belém la ricerca architettonica guarda all’interno, a Milano Gregotti guarda all’esterno. L’edificio si trova in periferia e contravviene alla regola non scritta per la quale un teatro lirico debba essere al centro della città. Per questo l’architetto qui ha cercato linee che potessero connettere l’edificio al contesto ex industriale. Gregotti è stato anche un grande saggista. Tra le sue opere ricordiamo “Il territorio dell’architettura” del 1966. È considerato da molti un vero e proprio classico della letteratura dello scorso secolo nel quale l’architetto affronta aspetti pratici dell’architettura, dall’utilizzo dei materiali al rapporto dell’architettura con la geografia e con la storia. In quest’opera Gregotti sviluppa una concezione della pratica architettonica non come si farebbe in un trattato “ma piuttosto come un esercizio”, volto a definire “il campo di competenza e l’articolazione esistente tra le discipline del progetto architettonico”. Insomma, da questo libro emerge un Gregotti che vuole far dialogare la geografia con i segni architettonici, sovvertendo la metodologia della progettazione. Altra nota opera è “La città visibile” del 1991. In questo libro l’autore prende atto del cambiamento che è avvenuto nei precedenti 40 anni tra gli architetti, sempre più attenti al contesto geografico e storico, con progetti che diventano “dialogo tra l’esistente e le modifiche che farà”. Il libro si pone, attraverso esempi concreti, la domanda su come progettare una città, partendo “dalla città stessa e dalla sua storia”, pur rimanendo sempre aperta la possibilità di proporre un “nuovo stato di equilibrio”, che si basi su “riordino e chiarezza”, elementi imprescindibili in architettura.    " data-ellipsis-item="...">

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