Una, nessuna, centomila professioni
Mentre la Terza Repubblica si prepara ai nastri di partenza, il Piano Industria 4.0 – unica vera eredità della legislatura appena conclusa – sembra spingere il Paese verso grandi trasformazioni, trainando un futuro dove lavoro e attività umana saranno presto affiancati, se non addirittura sostituiti, da soluzioni alternative di ultima generazione. La quarta rivoluzione industriale viaggia ad alta velocità, senza tuttavia essersi dotata di strumenti adeguati ad affrontarne gli effetti di ritorno, a rischio di veder riaffiorare le antiche paure di quella ‘disoccupazione tecnologica’ con cui Keynes spiegò la drammatica crisi di Wall Street.
Chissà se, nell’era delle intelligenze artificiali e della prorompente digitalizzazione del territorio a banda ultra larga, la formazione universitaria saprà far fronte ai cambiamenti, valorizzando i percorsi appena avviati affinché, dopo anni di crisi, si possa riconquistare il governo ordinato dei processi di sviluppo. Non senza difficoltà, e con notevole ritardo rispetto al resto d’Europa, sono partiti i primi corsi di laurea professionalizzanti che formeranno i nostri futuri super-tecnici. Il contesto sempre più tecnologico in cui viviamo ci obbliga a ripensare tutti gli aspetti della nostra esistenza; maggiore interazione con i centri urbani, diversa mobilità, nuove forme di progettazione dell’habitat e nuovi modelli di filiere industriali, sempre più sensibili e attenti all’ambiente, al risparmio energetico e alla salute. In questi anni recenti un propagandato learning by doing ha rubato la scena al collaudato ‘fare per imparare’ – che pure aveva visto crescere intere generazioni di professionisti – lanciando sui mercati di riferimento figure come l’ingegnere del legno o l’architetto del territorio, certamente specializzati ma ancora poco tutelati sul piano della normativa e dei rapporti contrattuali.
L’alta velocità dell’innovazione condizionerà anche la sfera della nostra vita previdenziale e ridisegnerà l’intero sistema di welfare, oggi vincolato a modelli economici tradizionali non ancora contaminati dal vento della modernizzazione. A leggere le ultime previsioni del Bureau of Labor statistics del Dipartimento americano del lavoro e dell’istituto di ricerca FastFuture, sono molte e variegate le nuove figure professionali che si presenteranno sul mercato entro il 2030. Nasceranno sotto l’egida universitaria dei master post laurea? Sapremo regolamentarle? C’è da chiedersi a quale Albo si iscriverà il ‘costruttore di parti del corpo’, figura che in un futuro non lontano darà origine a nuovi business, basti pensare ai centri di riparazione. E a quale Cassa di previdenza verseranno i contributi i nuovi ‘manager della terza età’, per garantirsi anch’essi una pensione dopo una vita spesa a trovar soluzioni innovative in campo medico, farmaceutico o alimentare, ad una popolazione invecchiata? Siamo un Paese tutto da ripensare e questa è una sfida che non possiamo rischiare di perdere. Gli enti di previdenza dei liberi professionisti, che oggi guidiamo con rigore e serietà, forse non esisteranno neanche più se, come vorrebbe la politica vincente di questa tornata elettorale, li lasceremo confluire nel mare magnum del sistema pubblico. Non c’è tempo da perdere, dunque, per ben comprendere e ben decidere, perché – per dirla con Rilke – ‘il futuro entra in noi molto prima che accada’. Di quella popolazione sempre più vecchia faremo parte anche noi, che non vogliamo restar passivi di fronte al declino del nostro Paese e ci avviamo nel futuro con un lieve senso di inquietudine. ■
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