Architettura del cibo. Food Design

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Impiattare non è un semplice sinonimo di “mettere nel piatto” ma è più vicino all’accezione di “comporre un piatto” infatti significa “Disporre con gusto una pietanza in un piatto, eventualmente accompagnandola con elementi decorativi anch’essi commestibili, in modo che risulti gradevole alla vista”.

Cucina kaiseki. Foto di Giorgio Dracopulos

Nella storia alimentare l’impiattamento ha avuto un’importanza non solo funzionale. Nel medioevo, i pasti come stufati o polente venivano serviti in pagnotte scavate, e per i reali, la presentazione del cibo era importante soprattutto come metodo per distrarre l’attenzione dei commensali dalla mancanza di grande raffinatezza e sapore delle pietanze.

Per questo scopo alcuni cuochi cercavano di far apparire gli animali come ancora in vita, conservando spesso la pelliccia o le piume. Le foglie d’oro erano adoperate per decorare le carni servite ai re e ai membri della corte. Gli ingredienti rari, come le spezie, erano apprezzati e dovevano essere dosati senza parsimonia dimostrando che l’impiattamento era, nella pratica, anche una celebrazione della grandezza del padrone di casa.

La presentazione del cibo può essere anche una metafora della forma mentis propria di un’intera società o periodo storico; si pensi ai grandi apparati scenografici dell’epoca rinascimentale o alle monumentali sculture neoclassiche di grasso e zucchero del XIX secolo. Nei tempi più recenti prevale invece la ricerca dell’essenziale, la semplificazione e la destrutturazione delle forme: le decorazioni tendono a mettere in risalto il piatto senza sopraffarlo, s’ispirano spesso a ingredienti contenuti al suo interno e presentati in forma differente. Altro fattore culturale che incide nella presentazione di un piatto è la postura che si assume a tavola: in Occidente generalmente il piatto viene visto dall’alto ed è in genere concepito in modo bidimensionale, come un quadro; in Oriente, invece, dove il cibo è tenuto quasi a livello degli occhi, la presentazione include sempre anche una dimensione verticale.

Croquembouche francese.
Foto di Dorling Kinderslay
(www. alamy.com)

L’Oriente e soprattutto il Giappone vanta la prima modalità d’impiattamento “artistico” con la cucina kaiseki che consiste in una forma di pasto tradizionale che include tante piccole portate in un assemblamento di piccoli piatti disposti elegantemente. Il termine kaiseki si riferisce altresì alle competenze tecniche che occorrono per cucinare un tale pasto comparabili alla grande cucina occidentale. Nel kaiseki si cerca armonia di gusti, di motivi e di colori. Per questo, solo ingredienti locali, solitamente freschi, sono usati per amplificare il sapore. Le pietanze sono disposte su contenitori singoli per esaltare l’aspetto e il tema stagionale del pasto. Le decorazioni consistono in fiori e contorni commestibili, sistemati in modo che prendano la forma di piante o animali vari.

In Occidente i secoli XVII e XVIII hanno segnato un cambiamento soprattutto all’interno della cucina francese, che ha influenzato notevolmente le altre, avviando i primi passi verso la haute cuisine. Luigi XIV dichiarò la cucina nazionale parte integrante della cultura francese, sia per il suo sapore che per la sua estetica.

Con Marie Antonin Carême Arfäně, cuoco e scrittore francese, si ebbe una grande attività di semplificazione e codifica dello stile di cucina noto come haute cuisine. Divenuto famoso per aver presentato le sue creazioni utilizzando concetti architettonici, costruendo, nel vero senso della parola, i suoi piatti ricalcando anche le forme di monumenti famosi, cascate, piramidi, ecc.

A Carême, che è stato indicato come “il re dei cuochi e il cuoco dei re”, si attribuisce la paternità del famoso croquembouche: dolce formato da una piramide di bignè farciti con crema e immersi nel caramello che ancora oggi, in Francia, è la perfetta chiusura di celebrazioni importanti. Carême ha portato in cucina due innovazioni concettuali: l’introduzione in Europa della tradizione giapponese e l’impiattamento del cibo con il fine di elevarne la qualità.

Con la locuzione servizio a tavola si designa la struttura di un pasto, vale a dire l’ordine delle portate, la maniera di recarle e la loro disposizione sulla tavola. Nella ristorazione moderna il responsabile di questo servizio è il Maître con al seguito la Brigata di Sala.

Un Menù. Foto di Roberta Cini

Discendente in linea diretta dalla struttura del pranzo rinascimentale e barocca, il servizio alla francese, che conosciamo come buffet, metteva in tavola tutti i piatti contemporaneamente (quelli caldi su scaldavivande e quelli freddi su maestosi ed elaborati piedistalli/ basamenti). Un allestimento del tavolo traboccante di vassoi disposti tutt’intorno agli scenografici “trionfi” dove i commensali si servivano senza osservare alcun ordine.

Ciascuno si organizzava il proprio personale menu, obbedendo ai propri gusti e al proprio appetito. Il pranzo era un’«opera aperta»: flessibile, indisciplinata, individualistica. L’introduzione nel corso del XIX secolo del servizio “alla russa”, ha fatto sì che i cibi venissero serviti uno dopo l’altro e che gli ospiti non potessero più prendere autonomamente ciò che desideravano.

Nel servizio alla russa (così chiamato dal diplomatico russo Alexander Borisovich Kurakin, presente in Francia a Clichy nel 1810- 1811) la tavola si presentava invece quasi del tutto spoglia: oltre all’apparecchiatura della tavola, per il numero dei commensali, comparivano al più gli antipasti freddi. Gli altri piatti venivano serviti uno di seguito all’altro e secondo un preciso ordine gerarchico. Agli ospiti era lasciata la sola scelta della quantità o del cortese rifiuto.

In conseguenza dell’affermarsi del servizio alla russa, nacque verso la metà dell’Ottocento quell’accessorio della tavola imbandita che è il “menu” o “minuta”, attraverso il quale il commensale poteva farsi un’idea di che cosa lo aspettava e quindi scegliere e quantificare le porzioni che si sarebbe fatto servire.

Ad oggi, una cena al ristorante spesso significa una successione di numerose piccole portate, tuttavia, nel corso del tempo, i commensali hanno sviluppato l’esigenza di dover mangiare sempre più velocemente e in maniera più leggera, senza per questo sacrificare la qualità e il sapore dei cibi. Il servizio “alla russa” doveva quindi diventare più ordinato e organizzato.

Aragosta Rosa. Foto di Giorgio Dracopulos

Dopo un breve periodo di coesistenza e di contaminazione col servizio alla francese, il servizio alla russa, praticamente quello tuttora in uso, si impose. I vantaggi sono evidenti: i piatti arrivano in tavola appena cucinati, al giusto punto di cottura, temperatura e fragranza e la struttura del pranzo, inoltre, è più chiara e razionale. Georges Auguste Escoffier (1846-1935), il padre della più recente ristorazione lo capì in anticipo e la sua soluzione fu di razionalizzare la preparazione dei piatti nei ristoranti, separando la brigata di cucina dalla brigata dell’impiattamento.

All’inizio del XX secolo, il grande chef francese Fernand Point ha introdotto gli elementi che in seguito sarebbero diventati tratti distintivi della nouvelle cuisine e non solo: ingredienti di stagione con un focus sugli aromi naturali e, soprattutto, la semplicità e l’eleganza nel piatto. La nouvelle cuisine ha raggiunto il suo apice grazie a chef del calibro di Alain Ducasse e Pierre Gagnaire, entrambi protagonisti della scena culinaria contemporanea.

Lo stesso Pierre Gagnaire ha detto: “Ho bisogno di mettere un po’ di poesia nei miei piatti. Devo sempre dare un impatto visivo alle mie ricette”.

Namelaka (crema-mousse) a forma di pesca.

L’evoluzione della nouvelle cuisine è proseguita con ulteriori artisti-chef quali Ferran Adrià in Spagna e Grant Achatz di Chicago che hanno elevato il minimalismo e la presentazione in cucina ma in una chiave differente: ad esempio attraverso la gastronomia molecolare, una cucina d’avanguardia in cui la creazione dix nuovi sapori e l’invenzione di nuovi stili di presentazione vanno di pari passo.

Con queste tendenze siamo entrati in una rivoluzione gastronomica: l’impiattamento e la presentazione in genere sono utilizzati sempre di più per evidenziare non solo l’arte culinaria dello chef ma l’unicità dell’esperienza che viene consumata a tavola. Essi costituiscono oggi una delle chiavi multisensoriali che i cuochi e il personale dei ristoranti possono utilizzare sotto forma di performance art: la messa in scena dell’esperienza gastronomica.

L’aspetto indiscutibile è che non si mangia più solo con la bocca, ma anche con gli occhi: ciò che è bello a vedersi può sembrare più buono nel momento in cui lo si gusta. Per questo diventa centrale e si aumenta anche il tempo dedicato allo studio dell’impiattamento tanto che a esempio un mitico ristorante in Spagna era famoso per rimaner chiuso ben sei mesi all’anno. Durante questo periodo, infatti, il team creativo del locale frequentava corsi di formazione, imparava a usare nuovi ingredienti e utensili, viaggiava in diversi continenti e cooperava con molte aziende del settore.

Sampuru “cibo finto”.
Foto di Giorgio Dracopulos

La presentazione rende un cibo attraente e stimola realmente l’appetito e influisce sulle aspettative relative al gusto: “si mangia prima con gli occhi”. È proprio l’impatto visivo che abbiamo con il cibo presentato che ci invoglia o meno all’assaggio, creando in noi l’aspettativa di ciò che andremo a mangiare. Un cibo ben presentato aumenta il suo livello di appetibilità, ci predispone quindi ad aver voglia di mangiarlo e recepirlo più gustoso anche al momento dell’assaggio. Diversamente, se mal presentato, susciterà in chi lo guarda una sensazione negativa che si ripercuoterà sul reale sapore.

Quando ci viene proposto un piatto, infatti, al primo sguardo immaginiamo già sapori e consistenza della pietanza in base a ciò che vediamo e questo dovrà sempre corrispondere al vero.

La presentazione del piatto, l’effetto visivo è così importante che in Giappone è nata l’arte del sampuru, il “cibo finto”.

Si tratta di una riproduzione dettagliatissima, perfetta in ogni particolare, delle pietanze che vengono servite. È un menu in 3D, è un business da miliardi di yen. Le repliche di cibo si trovano tanto negli izakaya – essenzialmente tapas bar – come nei supermercati e nei ristoranti di lusso di tutto il paese e l’idea di fondo è che la loro presenza aiuti i guadagni. Lo scopo, dunque, è piuttosto chiaro: mostrare cibi perfetti, appetitosi, e offrire ai potenziali consumatori un’idea di qualità e prezzo.

L’apprezzamento del “cibo finto” è profondamente connesso all’idea giapponese di assaggiare con gli occhi, inserendosi alla perfezione nella cultura dell’estetica del cibo. Presentare un piatto in modo armonioso e affascinante per il palato potrebbe non risultare sempre così semplice.

Cibo su Piatto tondo.
Foto di Giorgio Dracopulos

Occorre però tenere presenti alcuni criteri di base sulla disposizione spaziale degli alimenti, le forme, gli ingredienti e l’utilizzo dei colori. Importante ricordare la regola fondamentale che tutto quello che si mette nel piatto deve essere commestibile e non solo esclusivamente decorativo. Innanzi tutto, scegliere accuratamente la “quinta teatrale”, la cornice del cibo e cioè il piatto, la stoviglia, il contenitore.

Un piatto tondo tende inevitabilmente a far posizionare la vivanda nella zona centrale; un piatto quadrato offre la possibilità di utilizzare i quattro angoli per collocarvi quattro versioni differenti dello stesso ingrediente, lasciando al centro un condimento comune, oppure, seguendo le diagonali, di tracciare pennellate di guarnizioni cromaticamente e gustativamente di contrasto o di equilibrio con l’ingrediente principale; un piatto rettangolare o ovale può diventare una perfetta base di selezioni di ingredienti che devono essere consumati in un preciso ordine oppure può ospitare cibi che solitamente hanno come fondamento una trilogia delle preparazioni.

La collocazione del cibo varia a seconda della forma del piatto in cui è servito, come detto, ma le forme delle creazioni, oltre ad essere ammirate, devono essere mangiate e quindi occorre molta attenzione a non realizzare scenografie e “impalcature” che rendono difficoltosa la degustazione e cercare quindi di garantire sempre un accesso comodo al cibo.

Cibo su Piatto rettangolare.
Foto di Giorgio Dracopulos

Anche l’infinita varietà dei giochi cromatici esalta la potenzialità edonistica di un piatto. I colori sono veri e propri veicoli di messaggi che possono influenzare l’immaginazione del cibo e il desiderio di mangiarlo. Generalmente sono preferibili i contrasti per la gradevolezza e vitalità del piatto. Nella fase della presentazione del piatto, dell’impiattamento, è quindi molto importante conoscere il significato attribuito ai vari colori, per accostarli ed esaltarli al meglio e per realizzare una composizione armonica e cromaticamente gradevole.

Altri aspetti vanno tenuti presenti quali le consistenze, le decorazioni, e tutti gli altri accessori. Possiamo a buon diritto definire l’attività d’impiattare un’arte, si tratta in effetti di un esercizio che richiede esperienza e tecnica, ma soprattutto occhio e sensibilità estetica o artistica. Il cibo è una materia speciale capace di coinvolgere più di uno dei nostri sensi, non soddisfa solo il gusto ma appaga anche la vista, oltreché l’olfatto ovviamente. Per questo è molto importante saper “impiattare”: presentare bene un piatto, disporre accuratamente e creativamente gli elementi che lo compongono può fare la differenza, facendo apparire invitante anche una ricetta molto semplice. Una presentazione accurata, oltre ad essere indice di attenzione nei confronti degli ospiti, può diventare anche un tratto distintivo dello chef e del ristorante, una specie di firma riconoscibile che aumenta il prestigio del locale.

Cibo: Effetti cromatici.
Foto di Giorgio Dracopulos

Cibo e arte hanno una relazione sempre più stretta, specialmente da quando il food è diventato materia di design, di fotografia, di performance.

L’”impiattamento” ha ricevuto sempre più grande considerazione tanto che oggi non va tradotto letteralmente come “disegno”, bensì più ampiamente come “progetto”.

Ecco quindi il Food Design, il design legato al nutrimento, che vuole dire molte cose: può riferirsi alla presentazione di piatti e pietanze, naturalmente, ma anche all’ideazione di oggetti che migliorino il rapporto tra uomo e cibo. Progetti “per il cibo” e “con il cibo”.

Il Food design interessa sia l’industria della pubblicità per proporre e valorizzare i prodotti, sia tutte le aziende che realizzano utensili per la cucina, piatti, stoviglie, vasellame, bicchieri, posate, e quant’altro ruota intorno al cibo, sia cuochi o chef che per conquistare i clienti devono curare i dettagli dell’accoglienza e della presentazione delle pietanze: tutto deve essere predisposto per avvicinare piacevolmente all’esperienza della degustazione.

Ostrica. Foto di Giorgio Dracopulos

Il Food Design è quindi la progettazione applicata al cibo, una disciplina nata a metà degli anni ’90 e l’attività del food designer è tra arte, cucina e ideazione e propone idee e progetti per condurre a un’esperienza gastronomica capace di coinvolgere la molteplicità dei sensi. Occorrono svariate competenze. Un po’ comunicatore, un po’ cuoco e un po’ architetto, per costruire letteralmente il piatto finito, uno che lavora affinché il cibo, oltre che buono, sia anche bello da vedere, ma il fatto mai da dimenticare è che il cibo deve essere il protagonista.

 


Risotto in mezza bottiglia.
Foto di Giorgio Dracopulos

Per le Foto un ringraziamento a Giorgio Dracopulos, enogastronomo e critico internazionale (https://latavolozzadelgustodidracopulos.blogspot.com/).

 

disegno del banchetto romano. Museo municipale di Antequera, Malaga, Spagna (www.alamy.com)

 

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