Corradino D’Ascanio: l’ingegnere che progettava elicotteri e fece “volare” la Vespa
Dopo aver trattato degli architetti del Novecento che si cimentarono nel progettare automobili, vorrei ora rendere omaggio al pioniere del volo degli elicotteri, ingegner Corradino D’Ascanio, che detestava le motociclette e che, forse proprio per questa ragione, seppe ideare la Vespa, icona dello stile di vita e del design italiano, protagonista di film indimenticabili, esposta nella collezione stabile del MoMa di New York, prodotta in milioni di esemplari e ancora oggi punto di riferimento nel mondo degli scooter. Proviamo allora a raccontare come arrivò questo sorprendente risultato.
Affascinato ancora ragazzo dalle imprese dei fratelli Wright, che nel 1903 avevano fatto decollare la loro macchina volante, Corradino D’Ascanio, abruzzese di Popoli (1891-1981), si iscrive al Politecnico di Torino e si laurea in Ingegneria Industriale Meccanica nel 1914. Subito dopo si arruola volontario nel Battaglione Aviatori del Genio Militare, dove fa esperienza diretta nel campo dell’aviazione e partecipa alla progettazione e alla messa a punto di diversi prototipi di aerei da combattimento impiegati nella Prima Guerra Mondiale. Terminato il conflitto, dopo una breve deludente esperienza professionale negli Stati Uniti, torna alla città natale, dove si occupa per qualche anno di ingegneria civile e industriale ideando macchinari tra i più disparati, come un forno per panificazione e pasticceria e un catalogatore di documenti elettromeccanico a schede perforate. La sua passione rimane però il volo. In particolare è attratto da quegli strani oggetti volanti senza un nome preciso e senza ali fisse che dovrebbero alzarsi da terra in verticale, volare in tutte le direzioni e rimanere fermi sospesi in aria come colibrì, ma ancora non ci riescono. La sperimentazione su quelli che verranno poi chiamati elicotteri era iniziata con esemplari di scala ridotta sin dalla metà del ‘700, pressoché insieme agli esperimenti sul volo aerostatico dei fratelli Mongolfier, ma è soltanto nel ‘900 che, grazie al motore a scoppio, si comincia a intravvedere qualche possibilità di successo. Francesi, ungheresi, slovacchi, argentini, olandesi, sperimentano pale rotanti e pale battenti, coassiali, in tandem o parallele e svariate altre soluzioni, in un susseguirsi di tentativi dagli esiti talvolta incoraggianti, più spesso disastrosi. Dominare le forze scatenate dalla rotazione di pale orizzontali non è cosa semplice e i prototipi risultano instabili e praticamente inguidabili. Corradino D’Ascanio si inserisce presto e con entusiasmo in questa epopea pionieristica e, nel 1925, costituisce con il barone abruzzese Pietro Trojani una società per lo studio e la costruzione di elicotteri, da cui nascono i prototipi D’AT1 e D’AT2, costruiti a Pescara nelle Officine Camplone. Dotati entrambi di doppia elica coassiale, i due prototipi sono in grado di alzarsi da terra appena per pochi secondi, quanto basta a D’Ascanio e Trojani per ottenere un cospicuo finanziamento dal Ministero dell’Aeronautica Militare per la realizzazione di un terzo prototipo. Costruito nelle officine romane del Genio Aeronautico e spinto da un motore FIAT da 90 cavalli, il D’AT3 viene completato nel 1930 e, nell’ottobre dello stesso anno, pilotato dal maggiore Marinello Nelli, stabilisce una serie di primati: vola per quasi nove minuti, sale alla quota di quasi 18 metri e percorre una distanza di oltre un chilometro. Misure che oggi paiono risibili, ma che rimangono imbattute per diversi anni. I brillanti risultati ottenuti dal D’AT3 fruttano al suo creatore la medaglia d’oro del Reale Aero Club d’Italia, ma al di là dei pubblici riconoscimenti le autorità militari non sanno cogliere le potenzialità offerte dal nuovo apparecchio volante, chiudono il rubinetto dei finanziamenti e impediscono di fatto lo sviluppo di quello che è il primo elicottero funzionante. Ormai priva di risorse, la società costituita anni prima per la costruzione di elicotteri si scioglie e D’Ascanio deve trovare una nuova occupazione. Per sua fortuna l’esperienza acquisita con gli elicotteri nella progettazione di eliche a passo variabile gli permette di entrare nell’azienda aeronautica Piaggio, dove mette a punto le eliche ad alte prestazioni Piaggio-D’Ascanio montate persino negli aerei Macchi e Caproni. Sempre alla Piaggio, dove può anche riprendere lo studio sugli elicotteri, D’Ascanio realizza il prototipo PD1, ancora dotato di eliche coassiali, che nel 1935 gli consente di ricevere un nuovo incarico per progettare un elicottero per il Ministero dell’Aeronautica. Dopo due anni però il prototipo PD2 non è ancora pronto, il Ministero si ritira dall’iniziativa e neppure manifesta interesse davanti al prototipo PD3 che, come i moderni elicotteri, è dotato di un grande rotore orizzontale e di una piccola elica verticale di contro coppia. È il 1939 e l’Italia sta per entrare nella Seconda guerra mondiale.
La guerra si conclude nel 1945 con il suo tragico bilancio di vittime e di miseria e con la necessità di riconvertire alla produzione civile quanto rimane dell’industria nazionale. Tra queste la Piaggio, dove nel 1944, ancor prima della fine dei combattimenti e in attesa di poter riprendere l’attività in campo aeronautico, Enrico Piaggio immagina di poter riattivare i suoi stabilimenti con la produzione di un veicolo leggero per gli spostamenti individuali.
Dopo aver incaricato del progetto l’ingegner Renzo Spolti, Piaggio, non del tutto convinto del risultato, decide di rivolgersi a Corradino D’Ascanio, ancora in forze nell’azienda. D’Ascanio che, come abbiamo già detto, non amava le motociclette, perché scomode, sporche e rumorose, si mette al lavoro e disegna una persona comodamente seduta tra due piccole ruote con i piedi poggiati su una pedana che sul davanti si alza a formare uno scudo che scherma le gambe dall’aria e dagli schizzi; quindi, dispone il serbatoio sotto il sellino e ancor più sotto il motore, che copre con un guscio in modo da proteggere il guidatore dallo sporco e dal calore. Questo per quanto riguarda l’impostazione generale, ma anche sotto il profilo tecnico le novità non mancano. D’Ascanio sostituisce il consueto telaio motociclistico in tubi con una scocca portante in lamiera stampata; monta il blocco motore-cambio a lato della ruota posteriore e lo collega direttamente al mozzo, senza catena né altri organi intermedi di trasmissione, libero di oscillare con la sospensione posteriore; al posto della comune forcella anteriore adotta una sospensione a leveraggi, ispirata a quelle dei carrelli degli aeroplani, fissata alla ruota da un solo lato per semplificare la riparazione in caso di foratura, grazie anche all’impiego di cerchi scomponibili; per una maggiore comodità di guida sposta sul manubrio il comando del cambio, a tre marce; adotta un motore monocilindrico a due tempi di 98 cc. alimentato con miscela magra (2%), derivato dai motori d’avviamento aeronautici, che in marcia emette un caratteristico ronzio simile a quello di una vespa che forse, insieme alla fisionomia d’insieme del nuovo mezzo, ne motiva la scelta del nome. Brevettata dalla Piaggio nell’aprile del 1946 come “motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica”, la Vespa si distingue sia dalle motociclette che dagli altri scooter per le numerose soluzioni originali, che ne caratterizzano l’aspetto e la funzionalità e determinano un successo planetario che supera ogni aspettativa, finendo per legare indissolubilmente il nome di Corradino D’Ascanio alla Vespa e al marchio Piaggio. Gli elicotteri continuano però a rimanere al centro del suo interesse professionale e personale: terminata la collaborazione con la Piaggio, D’Ascanio diviene consulente della Agusta, principale azienda elicotteristica italiana e, persino una volta ritiratosi in pensione, realizza un piccolo elicottero ad uso agricolo, oggi custodito nel Museo Storico dell’Aeronautica Militare a Vigna di Valle insieme a una replica in grandezza naturale del D’AT3 costruita in suo onore nel 1975 partendo dai disegni originali del 1930.
Nei dintorni della Vespa
L’enorme e immediato successo della Vespa portò la Piaggio a dedicarsi stabilmente alla produzione di due ruote e fu di stimolo per altri costruttori a entrare nel mercato degli scooter o a trasferire nella produzione motociclistica alcune delle soluzioni innovative introdotte da Corradino D’Ascanio.
La Lambretta, prodotta dal 1947 per volontà di Ferdinando Innocenti, l’affermato industriale produttore degli omonimi tubi per ponteggi, fu a sua volta progettata da due esperti ingegneri aeronautici, Pier Luigi Torre e Cesare Pallavicino. In comune con la Vespa la Lambretta aveva la postura di guida, la pedana, le ruote piccole e il comando delle marce sul manubrio, ma per il resto era più convenzionale. Aveva infatti un telaio tubolare e una comune forcella anteriore, mentre il motore, collegato alla ruota posteriore da una catena, rimase in vista insieme agli altri organi meccanici fino ai primi anni Cinquanta, quando la Lambretta adottò una carrozzeria in lamiera. Questo scooter fu comunque il primo a porsi in alternativa alla Vespa e nei suoi venticinque anni di produzione conquistò numerosi estimatori, tanto da creare un dualismo tra vespisti e lambrettisti simile a quello tra tifosi i di Coppi e Bartali o gli amanti dei Beatles e dei Rolling Stones.
Il Galletto, prodotto dalla Moto Guzzi a partire dal 1950, era invece una sorta di ibrido tra motocicletta e scooter, della prima aveva le ruote alte e le sospensioni del secondo il telaio aperto con carrozzeria in lamiera stampata. Noto anche con lo scherzoso appellativo di “moto del prete”, perché anche quei prelati che ancora indossavano la tonaca potevano salirvi a bordo senza imbarazzo, grazie alle sue doti di confort e robustezza, il Galletto riscosse un considerevole successo commerciale e può a buon diritto essere considerato l’antesignano dei moderni scooter a ruote alte.
Infine, allontanandoci definitivamente dagli scooter ma rimanendo ancora in Italia, vanno ricordate le moto anticonvenzionali prodotte dalla Parilla negli anni Cinquanta, caratterizzate per l’impiego di una scocca portante in lamiera stampata in un unico volume composto da serbatoio, vano portaoggetti sottosella, parafango posteriore e porta targa e per gli organi meccanici protetti da un carter. Come ad esempio lo Slughi, motocicletta dalla linea slanciata e originale, che si poteva guidare anche con l’abito elegante.■
Un particolare e sentito ringraziamento alle nipoti dell’Ing. Corradino D’Ascanio, Paola, Anna e Maria che orgogliosamente custodiscono la memoria del nonno e hanno gentilmente fornito le immagini contenute nell’articolo.
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