Serriamo i ranghi
L’Italia può vantarsi di avere a disposizione un esercito di architetti e ingegneri liberi professionisti, pronti a mettere competenze e talento al servizio di una nuova era. Ben vengano allora tutte le ipotesi di alleggerimento delle attività delle pubbliche amministrazioni. Ben vengano le nuove assunzioni di tecnici nella P.A., con la consapevolezza che dovranno programmare e controllare la ricostruzione del nostro Paese, dopo la pandemia. Chi progetta, chi dirige i lavori – però – è il libero professionista e su questo non possono esserci dubbi. Ora spetta a tutti noi, ingegneri ed architetti italiani fare per difendere e potenziare il nostro ruolo.
Da troppo tempo Inarcassa, così come le sue consorelle, è stata chiamata a colmare le lacune nelle tutele della libera professione. Ma Inarcassa non è lo Stato. Inarcassa siamo noi, 170.000 iscritti, che con i nostri contributi cerchiamo, insieme a medici, avvocati, commercialisti, notai, biologi e consulenti del lavoro – solo per citarne alcuni – di ottemperare a quanto lo Stato non è riuscito sinora a fare.
Ognuno ha fatto la sua parte. Anche noi. Adottando importanti misure di welfare per contrastare gli impatti sociali ed economici connessi alla diffusione pandemica: dal posticipo delle scadenze contributive alle agevolazioni, ai sussidi, all’assistenza, agli indennizzi in caso di contagio e ai finanziamenti. Non era mai stata messa in campo, da un ente di previdenza, un’attività che coinvolgesse oltre 14.000 liberi professionisti, a cui è stata offerta la possibilità di disporre di 300 milioni di euro per ripartire, con tutti gli interessi pagati da Inarcassa. Una cifra non indifferente per chi, come noi, è costantemente sotto i riflettori della vigilanza ed è assoggettato alle regole stringenti della sostenibilità. E proprio nel 2020 abbiamo conseguito un risultato di bilancio di 485 milioni di euro, sull’impegno e la forza di chi ancora ci crede. Un avanzo economico che, non posso non ripeterlo per l’ennesima volta, andrà a garantire il futuro pensionistico delle nostre categorie.
Nell’esercizio del ruolo sussidiario che ci è proprio, abbiamo anche finanziato, in termini di anticipazioni, i sostegni attivati dallo Stato ma, al tempo stesso, siamo convinti della necessità di superare l’ottica emergenziale in favore di una visione sistemica, orientata allo sviluppo sostenibile del Paese, così come ricordato dal presidente Draghi, come gli investimenti nella ricerca, nel capitale umano, nelle infrastrutture. Preferiamo il debito produttivo dell’investimento a quello improduttivo del sussidio fine a sé stesso.
Non dimentichiamo che i soldi del recovery fund per i due terzi si trasformeranno in debito pubblico, che per noi ha già raggiunto 2.650 miliardi di euro. Un debito che non siamo sicuri di poterci permettere e che certamente ricadrà sulle spalle dei nostri figli. Questo ha un valore che andrà quotato.
In un’epoca complessa, sono molti quelli che richiamano la necessità di un patto per la ripartenza, perché – come avvenne nel secondo dopoguerra – il Paese ha bisogno di tutto: lavoro, sicurezza e, senza ombra di dubbio, un impegno comune per ricucire il rapporto di fiducia reciproca fra politica e dirigenza, fra capi e collaboratori, fra Pubblica Amministrazione e professionisti, in favore di una vera semplificazione di percorsi e regole sotto l’egida della lealtà e della trasparenza.
Davvero vogliamo ripartire? Allora dobbiamo serrare i ranghi, con unità d’intenti e coesione. Non possiamo più immaginare un Paese frantumato in aree geografiche e poli d’interesse. Nord, centro e sud devono, oggi più che mai, entrare nel mondo dei ricordi superando barriere culturali vecchie e certamente poco produttive. Servono unità ed unitarietà. Come l’Italia è una e indivisibile, così deve essere la nostra Cassa di previdenza. Così sarà per l’oggi, se vorremo guardare al domani. ■
In copertina: foto di No-longer-here da Pixaby
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