Quando anche i grandi dell’architettura progettarono automobili
Nel Novecento, con visioni e obiettivi differenti, Walter Gropius, Richard Buckminster Fuller, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright e infine gli italiani Gio Ponti e Mario Bellini si cimentarono col tema per loro inusuale dell’automobile. Vale la pena ricordare queste esperienze, spesso considerate ai margini della storia dell’architettura.
Intorno al 1920, conclusa l’epoca pionieristica, l’automobile aveva maturato una propria identità tecnica e formale ben definita, che resterà pressoché inalterata fino a tutti gli anni Quaranta. Lussuose o economiche, berline o sportive, le automobili erano costruite con un telaio portante e quattro ruote disposte agli estremi, le anteriori sterzanti e le posteriori motrici, il motore a scoppio collocato davanti ai passeggeri, carrozzeria e parafanghi separati, calandra del radiatore, tondeggiante o squadrata, a seconda della casa costruttrice.
Nel 1931 l’azienda automobilistica tedesca Adler chiese a Walter Gropius di modernizzare il proprio marchio di fabbrica e progettare la carrozzeria della “Standard 8”, il suo nuovo modello di punta mosso da un potente motore 8 cilindri. Il maestro della Bauhaus modernizzò il marchio e disegnò diverse versioni di carrozzeria con linee sobrie ed eleganti, conformi ai canoni stilistici correnti.
Come vedremo più avanti, questo fu l’unico caso in cui un fabbricante di automobili si rivolse a un noto architetto per sfruttarne le idee e il nome, anche sul piano promozionale, ma nonostante il successo commerciale, la collaborazione fu troncata per le note vicende storiche che presto costrinsero l’architetto ad abbandonare la Germania e trasferirsi negli Stati Uniti.
Intraprendente e visionario fu invece Richard Buckminster Fuller che, tra il 1932 e il 1935, nell’ambito del suo vasto progetto “Dymaxion philosophy” (DYnamic-MAXimum-tensION), destinato a migliorare le condizioni dell’uomo in diversi campi, tra cui la mobilità, progettò la “Dymaxion Car”, costruendone anche tre prototipi.
Lunga circa sei metri e dotata di una carrozzeria aerodinamica a goccia (ritenuta all’epoca la più efficiente) con spazio per dieci passeggeri più il guidatore, seduto a sbalzo dell’asse anteriore, la sua automobile era di aspetto totalmente diverso da qualsiasi altra, ma ancor più originali erano alcune delle soluzioni tecniche adottate. Dotata di un grosso motore posteriore collocato in posizione ribassata e trainata da due ruote motrici anteriori avrebbe dovuto superare i 190 km/h, mentre l’unica ruota posteriore sterzante avrebbe dovuto garantirle eccellente manovrabilità e stabilità.
I collaudi effettuati mostrarono però che questo era vero a bassa velocità e in fase di parcheggio, mentre a velocità più elevate il veicolo era instabile e pericoloso, il che, nonostante le ingenti somme investite, indusse lo stesso progettista e gli altri investitori a non proseguire con l’iniziativa.
Anche Le Corbusier si adoperò a delineare le caratteristiche di un’automobile coerente col suo pensiero di architetto, urbanista, designer e artista. Partecipando nel 1934 al concorso indetto dalla SIA (Societés des Ingenieurs de l’Automobile) per la progettazione di un’automobile dal costo di 8000 franchi, la metà del modello più economico allora prodotto in Francia, presentò il suo progetto di “veicolo minimalista per la massima funzionalità”, la “Voiture minimum”, già abbozzato qualche anno prima in parallelo alle ricerche nel campo dell’abitazione minima. Provvista di motore e trazione posteriori, la vettura di Le Corbusier era larga, corta e bassa, l’abitacolo, con fianchi lisci verticali e profilo curvo tagliato di netto dal frontale piatto e inclinato, era monolitico e inglobava le ruote posteriori lasciando sporgere per metà le anteriori. La piccola vettura era dotata di paraurti anteriore ad assorbimento d’urto e protezioni tubolari sui lati rimanenti, aveva tre sedili anteriori affiancati trasformabili in cuccette e un solo sedile posteriore trasversale, era fornita di tetto apribile in tela impermeabile e di un vano laterale per la ruota di scorta accessibile dall’esterno. Il progetto, innovativo e diverso dalle proposte degli altri concorrenti, fu apertamente deriso dalla giuria con grande disappunto di Le Corbusier che, fermamente convinto della validità delle proprie idee, lo ripropose a diversi costruttori, ma senza successo.
Al contrario, Frank Lloyd Wright, che negli anni Venti e Trenta aveva curato in ogni dettaglio il progetto di due innovative stazioni diservizio e legato saldamente la propria concezione urbanistica alla diffusione della mobilità privata, non si interessò mai a progettare automobili, ma, secondo una consuetudine già allora diffusa oltreoceano preferì rielaborare su suo disegno la carrozzeria di alcune delle splendide vetture possedute nel corso della sua agiata lunga vita. Come la Lincoln Continental Two Doors Sedan del 1941 rimodellata qualche anno dopo con linee morbide ed opulente che non passavano certo inosservate e curiosamente priva del lunotto posteriore, in quanto in auto Wright non sentiva mai l’esigenza di voltarsi indietro.
Finita la Seconda guerra mondiale, l’industria automobilistica introdusse importanti innovazioni tecniche, in particolare, la vecchia tecnologia della carrozzeria costruita separatamente dal telaio venne progressivamente sostituita dalla carrozzeria portante, e le automobili cambiarono, iniziarono ad uniformarsi ai canoni estetici della cosiddetta linea “ponton”: carrozzeria a tre volumi dalle forme morbide e arrotondate, con cintura alta e parafanghi integrati alla carrozzeria. Negli stessi anni Gio Ponti studiava per l’automobile e altri oggetti di uso comune quella che lui definiva “Linea Diamante”. Totalmente in antitesi con la linea “ponton”, la berlina “Linea Diamante”, spigolosa e sfaccettata come suggerito dal nome, aveva carrozzeria a due volumi e tre luci, ampie superfici vetrate, linea di cintura bassa e cofano motore avvolgente. Pensata per vestire la meccanica dell’Alfa Romeo 1900, la carrozzeria ideata da Gio Ponti, evidentemente ritenuta fin troppo innovativa e lontana dai gusti del pubblico, fu dapprima rifiutata dalla casa automobilistica milanese e quindi dalla Carrozzeria Touring e dalla Fiat, rimanendo sulla carta.
Qualche anno dopo, nel 1972, Mario Bellini, architetto e designer allievo di Gio Ponti, presentò alla mostra “Italy: the New Domestic Landscape”, allestita al MoMA di New York, l’automobile “Kar-a-sutra”. Provocatoria e irriverente nel nome e nell’aspetto, la vettura di Bellini, di forma prismatica con il frontale fortemente inclinato, consentiva un uso versatile e alternativo dello spazio interno, grazie all’abitacolo che poteva essere alzato, abbassato, coperto o scoperto secondo le esigenze e grazie alle sedute che si potevano orientare e aggregare a piacimento. Prodotta come esemplare unico e senza velleità di produzione in serie dall’azienda mobiliera Cassina sul pianale della Citroen SM, la “Kar-a-sutra” fece scalpore tra i visitatori della mostra, ottenne un grande successo di critica e fu anche insignita del Premio Bolaffi Arte Design.
Tanti anni dopo queste esperienze, all’interno delle case automobilistiche e degli atelier di design, tantissimi architetti e ingegneri altamente specializzati partecipano alla realizzazione di nuovi modelli.
Nel futuro della mobilità privata, incentrato su motorizzazione elettrica, dotazioni elettroniche e guida autonoma, non c’è spazio per l’iniziativa personale e a tratti romantica di architetti estranei all’industria dell’auto e forse questo spazio non c’è mai stato. Ma se è vero che molte delle idee dei protagonisti illustri e geniali dell’architettura che abbiamo presentato non hanno avuto seguito è altrettanto vero che presto o tardi altre loro idee sono state riprese e adottate da molti costruttori. Ne fu da subito convinto Le Corbusier, che insinuò forti dubbi sull’originalità del Maggiolino Volkswagen e che, forse, con la sua “Voiture minimum” ispirò in parte la Citroen 2CV. È sicuramente vero per la “Linea Diamante” di Gio Ponti, che anticipò le forme delle berline a due volumi prodotte dalla fine degli anni Sessanta in avanti, a partire dalla Renault 16 e dalla prima Volkswagen Passat, ed è altrettanto vero per la “Kar-a-sutra” di Bellini, esercizio di design nato quasi vent’anni prima della Renault Espace e delle altre monovolume che conquistarono il mercato di fine millennio. ■
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