Salario minimo ed equo compenso

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Improvvisamente è tornato d’attualità in Europa, e di conseguenza in Italia, il tema del salario minimo per i lavoratori dipendenti e per quelli assimilabili. Se ne parlava da anni, anni di micro-lavori, lavori a chiamata, occasionali e temporanei, a bassa remunerazione, senza continuatività né garanzie di sorta (la c.d. gig economy), si pensi poi ai lavori agricoli stagionali a tre euro l’ora. Di fronte a tutto questo, la decisione del Parlamento europeo di rendere il provvedimento strutturale, se non obbligatorio per gli Stati che fanno parte dell’Unione ha riacceso l’attenzione su questo istituto. È noto che la logica del provvedimento mira a ridurre le sacche intollerabili di povertà che sono progressivamente aumentate ovunque, a seguito della crisi economica ultradecennale e poi del Covid-19, che hanno infranto equilibri socioeconomici che erano stati faticosamente raggiunti nel secondo dopoguerra.

Di fronte alla spropositata accumulazione di ricchezza che si è concentrata su pochi soggetti del mondo della produzione e della finanza, i Governi dell’Unione tentano così di stabilire per legge una garanzia minima di sussistenza nel mondo del lavoro debole e marginale, per salvaguardare quanto resta della coesione sociale e del senso d’appartenenza al sistema, nelle categorie meno agiate.

Il problema è ancora più delicato in Italia, dove il reddito di cittadinanza ha creato una perturbazione incontrollabile del mercato del lavoro, dove il salario minimo proposto è pericolosamente vicino a quello dei contratti collettivi e dove il pesante cuneo fiscale, il debito pubblico e la ridotta produttività costringono i salari ad un livello troppo basso rispetto alla media europea. Ad ogni buon conto il salario minimo, in sé indiscutibile se astratto dalla situazione reale, prima o poi sarà introdotto, pur con il rischio che paradossalmente incentivi ancora una volta i corrispettivi “in nero”, quindi l’evasione fiscale e contribuisca di conseguenza al dissesto dell’INPS e a quell’estraniamento sociale di masse sempre più ampie, che l’Europa vorrebbe contrastare.

Contemporaneamente, sull’altra sponda del lavoro intellettuale degli architetti e degli ingegneri liberi professionisti è in corso come noto, il tentativo di garantire corrispettivi minimi, proporzionati al valore, al costo, alle responsabilità e ai rischi della prestazione, almeno nei confronti dell’Amministrazione pubblica e dei grandi committenti. Contemporaneamente e paradossalmente, il medesimo Stato, mentre medita d’introdurre il salario minimo per il lavoro dipendente, attribuisce in modo sistematico gli incarichi professionali ai liberi professionisti al massimo ribasso e alcuni dei suoi organismi di magistratura teorizzano addirittura la liceità delle prestazioni gratuite.

Eppure i due temi pongono entrambi il tema del valore del lavoro e sono le facce di quella medesima medaglia, che si è ormai configurata nella crescente proletarizzazione dei lavoratori e dei professionisti, nell’ormai indecente squilibrio nella distribuzione della ricchezza – un CEO ha un introito medio 600 volte maggiore di uno stipendio del proprio dipendente (fonte: Data room Corsera) – fattori che conclamano entrambi la rinuncia alla speranza diffusa di una società aperta e genuinamente democratica, dove gli ascensori sociali giustificano i sacrifici e gli investimenti fatti a favore delle generazioni future.


* Presidente Ala-Assoarchitetti

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