Che cosa hanno in comune Einstein, uno studio professionale e un ente previdenziale?

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Albert Einstein affermava che non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta davvero. È proprio vero anche nella gestione delle risorse umane, che sia uno studio associato o composto da un solo professionista, un’azienda o un ente previdenziale, il problema è lo stesso: il vero patrimonio di cui queste strutture dispongono, tolte le attività mobiliari e immobiliari, è costituito dal personale. Infatti, l’unico capitale insostituibile che un’organizzazione possieda è il sapere e la capacità dei suoi membri e la produttività di questo capitale dipende dall’efficienza con cui i membri condividono le loro competenze con coloro che possono usarle: si chiama intelligenza collettiva. Thomas A. Stewart, il padre del capitale intellettuale, afferma che il capitale fisso necessario per creare ricchezza nell’economia dell’informazione e della conoscenza non è la terra, né il lavoro fisico, né le macchine utensili, né gli stabilimenti, ma è un capitale fatto di conoscenza, il capitale intellettuale. Un patrimonio a tutti gli effetti.
Ora, l’economia insegna che un patrimonio, se non si misura, non si può gestire e non si può migliorare e, purtroppo, anche le aziende di knowhow, quelle ad alta concentrazione di conoscenze, piccole o grandi che siano, non lo misurano, o meglio lo misurano male e solo in bilancio, in base al costo, come il materiale di consumo e la cancelleria. Un po’ poco: così si perdono quelle dimensioni fondamentali fatte di competenze, di relazioni, di capacità organizzative: tutti elementi la cui importanza si riesce ad intuire, ma si perde una grande opportunità di crescita manageriale se non si misurano e non si pesano. Questo alla lunga si paga.
La domanda da porsi a questo punto è: il capitale intellettuale si può misurare e pesare? Certamente sì, attraverso metriche particolari, ma non complicate. Tutte le scienze, dalla medicina alla fisica per finire all’organizzazione aziendale, hanno fatto grandi passi avanti quando hanno iniziato a misurare quello che apparentemente non era misurabile trasformando così aspetti puramente qualitativi legati alle “impressioni e intuizioni” soggettive in termini quantitativi e legati a misurazioni oggettive.
Inizialmente, verso la metà degli anni Settanta, si era iniziato a misurare il capitale intellettuale, per attribuire ad esso un valore economico per influenzare le quotazioni di borsa di aziende e lo scambio di pacchetti azionari. È chiaro a tutti che: a parità di altre condizioni un’azienda con personale smart non può valere quanto un’azienda con personale seduto e demotivato, magari vicino alla pensione, senza creatività e spirito di innovazione. Poi si è capito che l’idea di misurare il capitale intellettuale per attribuire ad esso un valore economico da mettere in bilancio tra gli asset intangibili era troppo aleatorio e limitativo e si è scoperto invece che è uno strumento potente di gestione delle risorse umane assai utile per programmare le attività, fare delle analisi e delineare strategie. Per la cronaca, vale la pena sottolineare che le uniche aziende che le attività, fare delle analisi e delineare strategie. Per la cronaca, vale la pena sottolineare che le uniche aziende che misurano e gestiscono e danno un valore economico al loro capitale umano sono le squadre di calcio: le aziende che lavorano con i piedi, che riconoscono il valore dei singoli giocatori, gli aspetti organizzativi dello spogliatoio, il valore dei manager e allenatori e i proventi delle sponsorizzazioni e dei diritti di antenna. Ma, un’azienda che lavora con il cervello, ad alta intensità di conoscenze, come lo studio di un ingegnere o di un architetto o come un ente di previdenza e assistenza può usare criteri analoghi anche senza godere di sponsorizzazioni, schemi di allenamento o vivaio di giovani da tenere in osservazione? Certamente sì; l’economia aziendale nell’ambito del knowledge management ha ormai da molti anni messo a punto metriche di misurazione, distinguendo tra capitale umano, capitale organizzativo e capitale relazionale dove, sintetizzando, per capitale umano di una struttura si intende in linea di massima la sommatoria dei cv del personale che opera in un’azienda e da quanto tempo lavora insieme – anni di studio cumulati, anni di conoscenza del settore, anzianità di azienda di tutti i dipendenti etc. –, per capitale organizzativo si intende la sommatoria dei progetti realizzati all’interno della struttura – procedure informatizzate, modelli gestionali, strutture di controllo, supporti alla gestione etc. – e, infine, per capitale relazionale si intende la qualità e la quantità delle persone che si conoscono negli ambiti che si presidiano come individui e come entità organizzative inclusa la presenza sulle reti social.
Ora, il capitale umano esce alle 18 di sera e va in pensione con le persone che non sono sempre facilmente sostituibili; quello organizzativo anche se voluto dai vertici aziendali è realizzato dai dipendenti e rimane nel tempo patrimonio dell’ente anche se le persone migrano. Quello relazionale, infine, se gestito bene appartiene non solo alle singole persone, ma anche all’organizzazione dell’ente, studio o ente previdenziale che sia.
Anche se non lo misuriamo, tutti intuiamo che, se un collega partecipa ad un seminario di formazione o si assume una nuova persona, il capitale umano aumenta oppure diminuisce se qualcuno per motivi diversi se ne va, ma non misuriamo nulla. Anche il capitale relazionale a seconda dell’inserimento nei vari contesti professionali tende ad aumentare nel tempo: esso è costituito dalla rete dei vecchi amici, la old boys net, costruita fin dai tempi dell’università, che cresce nel tempo man mano che ci si inserisce nei vari contesti professionali. Lo stesso capitale relazionale può diminuire a livello aziendale, solo se qualcuno esce senza che nessuno ne abbia raccolto l’eredità di contatti e relazioni. Ciascuno di noi, se fa un bilancio delle persone che conosceva quando ha iniziato a lavorare e quante ne conosce il giorno prima di andare in pensione, ha la percezione esatta di quanto il suo capitale relazionale sia aumentato: il problema è comprendere se quel patrimonio è solo personale o è anche dell’organizzazione che ha consentito tale crescita, che è comunque un valore professionale ed è importante comprendere se su di esso capitalizza solo l’individuo o anche l’organizzazione.
Ancora una volta Einstein: la realtà cambia a seconda dei punti di osservazione e i vantaggi di misurare il capitale intellettuale possono essere diversi e complementari.
Per un grande ente, come ad esempio Inarcassa, è uno strumento potente di gestione delle risorse umane e rappresenta la logica evoluzione del bilancio sociale come strumento di relazione: la realizzazione di un modello di stakeholder engagement con uno degli stakeholder più importanti, il proprio personale. I dipendenti di un ente, infatti, non vengono remunerati solo con l’accredito dello stipendio in conto corrente, ma anche con un incremento del loro capitale umano, organizzativo e relazionale che, se non viene misurato, non può essere apprezzato; lo sanno bene i giovani che fanno praticantato presso i vari studi. Le esperienze maturate hanno messo in luce che misurare il capitale intellettuale, per l’ente che decide di farlo, incide positivamente su più fronti: intanto è uno strumento potente di programmazione delle risorse umane, poi fa emergere una sorta di fringe benefit offerto al personale di cui si intuisce la portata, ma se non si misura la valenza non si percepisce l’importanza; nel passato il tema è stato oggetto di confronto anche con le organizzazioni sindacali. Infine, la misurazione del capitale intellettuale incide anche sul benessere organizzativo e quindi aumenta la produttività dell’ente, dal momento che è dalla metà degli anni Trenta che è stato dimostrato come le persone motivate e quelle demotivate costano uguale sul conto economico, ma hanno produttività assolutamente diversa.
 
Padiglione Arabia Saudita, Accommodations. 17. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, How will we live together? Foto di Andrea Avezzù
 
Anche per uno studio professionale, composto al limite da un solo individuo, la misurazione del capitale intellettuale è uno strumento semplice da adottare e serve a fare un tagliando all’attività professionale: capire se è il caso di investire ancora in formazione, oppure in organizzazione interna attraverso progetti qualificanti o in relazioni esterne per far crescere lo studio. Nel medio e lungo periodo il successo e lo sviluppo si ottiene solo se i tre componenti del capitale intellettuale si bilanciano, la storia dei grandi studi ne è un esempio, ma è nel durante, nell’attività anno per anno che serve fare il punto nave per capire come si sta procedendo senza perdere tempo e avere la visione precisa su dove incidere di più o dove alleggerire la pressione. Fin qui l’ottica imprenditoriale, ma non va trascurata neanche l’ottica del singolo dipendente: la misurazione diventa uno strumento di programmazione personale e professionale che consente di gestire le cosiddette “ansie da carriera” e la “sindrome da gabbia d’oro”. Che cosa vuol dire. Nella vita lavorativa di ciascuno di noi c’è sempre un momento di scontento e frustrazione legato a eventi spesso banali, ma che incidono comunque fortemente sull’umore e le motivazioni: il collega che fa carriera più velocemente, la promozione che non arriva. A questo si aggiunge a volte la difficoltà a ricollegarsi sul mercato del lavoro per i motivi più diversi, stipendi troppo elevati rispetto alle medie di mercato, la perdita di fringe benefits, la necessità di trasferimenti, il peso della famiglia, la difficoltà a immaginare un futuro professionale all’interno e all’esterno della realtà che si vive etc. Tutti questi ultimi elementi che provocano ansia e incertezza vengono spesso classificati nell’ambito della sindrome delle “gabbie d’oro”, che magari sono d’argento o semplice ferro, ma che sono pur sempre gabbie che frenano i cambiamenti. È qui che entra in ballo la misurazione del capitale intellettuale, che consente all’individuo di darsi degli obiettivi professionali di breve periodo e di superare il momento critico e di giocare contemporaneamente sui diversi tavoli della professionalità. Permette di fare un tagliando alla propria carriera professionale, individuando le iniziative migliori da prendere in attesa che “passi la nottata” come diceva Eduardo: investire in formazione per accrescere il capitale umano, oppure investire nella partecipazione a progetti innovativi al di là della remunerazione, per arricchire il proprio knowhow tecnico, investire in visibilità e relazioni ed avere quindi una percezione più precisa di come il proprio capitale intellettuale cresce e si arricchisce rimanendo nell’organizzazione dove si lavora. Un modo nuovo per ritrovare le motivazioni perdute.
Tutto questo, quindi, serve al singolo, allo studio associato e al grande ente; la cosa che va considerata è che tutti e tre sono, al di là delle dimensioni, aziende di knowhow, aziende ad alto contenuto di conoscenze dal momento che, come dice la parola, sanno “come si fa” un qualche cosa di specifico per realizzare il quale serve conoscenza, esperienza e relazioni. Misurare questi tre aspetti significa gestire il capitale intellettuale: il vero patrimonio di un’azienda che lavora con la forza del cervello e non con la forza delle braccia e servono quindi sistemi di misurazione diversi ai quali non siamo storicamente abituati. Ma come si misura il capitale intellettuale nelle sue tre dimensioni umano, organizzativo e relazionale? Attraverso metriche collaudate in altri contesti lavorativi, anche se poco diffuse, attraverso indicatori condivisi semplici che tuttavia, messi a sistema, consentono di misurare i progressi di anno in anno pescando da un dizionario di indicatori, frutto della curva cumulata di altre esperienze, quelli che meglio si adattano alla circostanza.
In conclusione, non è difficile intuire come sia la conoscenza che crea la ricchezza economica e misurare solo quest’ultima senza misurare la prima, appare incoerente; come non è difficile intuire che, per effetto dei cambiamenti di scenario tecnologico e sociale, la conoscenza è sempre più a scadenza come lo yogurt e richiede competenze, saperi, elasticità mentale e, ovviamente, sistemi più adeguati a misurare questi aspetti e gestire i cambiamenti che si profilano all’orizzonte. Non a caso Francis Bacon, il filosofo della rivoluzione scientifica e del metodo della conoscenza (1597), affermava che “Knowledge is power”, un’affermazione ancora più valida oggi nell’economia della conoscenza.

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