Le Casse di previdenza: le finalità sono pubbliche, l’identità resta privata
“Nessun testo di legge di riforma delle pensioni è stato predisposto ad oggi dal Cnel, né esistono tantomeno documenti ufficiali ascrivibili al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro”.
Questa la risposta ufficiale del Cnel, diffusa durante la pausa estiva, che respinge le indiscrezioni riportate da alcune testate giornalistiche in merito a presunte riforme del sistema previdenziale. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro guidato da Renato Brunetta aggiunge che certo è stato istituito un gruppo di lavoro altamente qualificato, composto da accademici, esperti del settore e rappresentanti delle parti sociali, ma che questo si stia concentrando “nell’approfondimento delle quattro macroaree del sistema di welfare pensionistico: previdenza obbligatoria, quella delle Casse professionali, quella complementare e il regime di contribuzione obbligatoria con i connessi problemi di evasione”.
La vicenda Cnel rappresenta solo il pretesto per ribadire come la questione dell’autonomia delle Casse e la disputa sulla loro natura, pubblica o privata, abbiano acquisito una rilevanza crescente, non solo nel contesto previdenziale, ma anche rispetto al ruolo che tali enti rivestono nel sistema socioeconomico italiano. Il Cnel, in questo senso, rappresenta solo l’ultimo degli organismi che in ordine temporale, intervengono, in modo più o meno estemporaneo, nel settore delle Casse privatizzate e private e nel dibattito sulla loro funzione. La ragione è semplice, gli enti di previdenza sono ormai un punto di riferimento per il Governo e le Istituzioni che le considerano più o meno esplicitamente una potenziale risorsa finanziaria per sostenere il Paese. Non è difficile capirne il motivo: l’ultimo rapporto della Covip ha certificato che il patrimonio degli enti dei professionisti ha superato i 114 miliardi di euro, il 38,5% dei quali – pari a 44 miliardi – investito in Italia, con un aumento di quasi tre punti percentuali in un anno.
Numeri frutto di quell’autonomia gestionale, organizzativa e contabile che gli fu affidata dal legislatore 30 anni fa, quando la legge 537/1993 prima e il Decreto Legislativo 509 del 1994 poi, trasformarono le Casse (Inarcassa tra queste) in associazioni o fondazioni conferendo loro una connotazione di diritto privato, ferme restando le finalità istitutive, così come l’obbligo di iscrizione e contribuzione da parte delle categorie professionali per le quali erano state create.
Una scelta che ha permesso di sollevare lo Stato dall’onere di garantire la protezione sociale pubblica a questi professionisti, affidando agli enti stessi una responsabilità diretta della gestione delle risorse previdenziali. La legge istitutiva, inoltre, distingueva espressamente tra “gestione” – riservata all’autonomia delle Casse – e “vigilanza” – attribuita al ministero – con ciò lasciando chiaramente intendere che ai ministeri non è stato attribuito alcun potere di intervenire direttamente nelle decisioni gestionali delle Casse.
È proprio quest’autonomia il cuore del sistema previdenziale, un’autonomia che permette di operare con flessibilità per adattarsi alle mutevoli condizioni economiche e alle specifiche esigenze degli iscritti, all’inverno demografico e all’allungamento della speranza media di vita. È anche grazie all’utilizzo virtuoso dell’autonomia che gli enti nel corso di questi anni sono riusciti a garantire la sostenibilità a lungo termine delle prestazioni pensionistiche e assistenziali, nei termini imposti loro dallo Stato per conservare la propria indipendenza e senza poter ricorrere a finanziamenti pubblici.
A distanza di 30 anni, numeri alla mano, si può certamente affermare come le Casse (salvo casi isolati) abbiano onorato gli impegni presi, erogando pensioni e poi prestazioni di welfare aggiuntivo, in maniera sempre crescente. Ma questo non è bastato. Nel corso degli anni, infatti, la chiarezza normativa iniziale si è progressivamente offuscata. Diversi nuovi provvedimenti legislativi (l’ultimo è relativo all’ipotesi di estendere l’applicazione della contabilità accrual anche agli enti) hanno progressivamente attratto le Casse private e privatizzate nella sfera dei soggetti pubblici, imponendo vincoli che limitano o compromettono la loro autonomia, del tutto in contrasto con lo spirito originario della norma.
L’elemento cruciale di questo cambio di passo, che ha erroneamente spinto gli enti previdenziali privati verso la sfera pubblica, è stata l’inclusione delle Casse nel 2009 nell’elenco ISTAT delle pubbliche amministrazioni rilevante ai fini della stesura del bilancio pubblico consolidato. Tale inclusione, di per sé, non avrebbe dovuto comportare l’attrazione delle Casse nel mondo delle p.a.: si trattava, infatti, di una misura che ha mere finalità statistiche, adottata in attuazione delle regole di contabilità europee mirate a rilevare la spesa che ogni Stato membro destina alla previdenza.
Tale elenco però, nel tempo, è stato sempre più utilizzato non solo come ambito di riferimento per l’applicazione di norme di finanza pubblica, ma anche per quelle di carattere ordinamentale, contribuendo a delineare una progressiva configurazione pubblica di enti di natura privata come le Casse. I criteri di classificazione adottati da Eurostat considerano, tra le altre cose, l’esistenza di un potere di vigilanza e controllo da parte dello Stato.
L’applicazione rigida di questo principio ha segnato l’inizio del ricorso sistematico all’elenco ISTAT come ambito di applicazione di numerose disposizioni di finanza pubblica, imponendo alle Casse diversi vincoli. Questi includono norme sulla disciplina del pubblico impiego, la spending review, l’applicazione del codice dei contratti pubblici o l’obbligo per le Casse di adottare un sistema di contabilità diverso da quello civilistico.
Un paradosso se si pensa, per esempio, che le Casse non possono ricevere garanzie o finanziamenti statali e operano senza mai fare appello alla collettività generale e quindi senza gravare sulla finanza pubblica.
Di contro, viene chiesta loro solidità e sostenibilità finanziaria a lungo termine, trascurando l’interconnessione fondamentale di una gestione efficace ed efficiente, supportata da una certezza normativa che consenta loro di operare nel migliore interesse dei propri iscritti.
Proprio grazie a quell’autonomia, sotto attacco, gli enti hanno costruito un patrimonio che rappresenta un esempio virtuoso di gestione di un bene privato con finalità pubbliche. Questo ha consentito nel tempo non solo di assicurare agli iscritti i trattamenti previdenziali obbligatori, ma anche di offrire una assistenza integrativa che lo Stato è sempre meno in grado di assicurare. Tentare di smantellare questo sistema previdenziale per meri o presunti scopi contabili, rischia di compromettere la certezza e la tranquillità che una simile gestione deve garantire ai propri associati.
L’autonomia non è solo una questione di definizione giuridica, ma una condizione essenziale per mantenere la sostenibilità e l’efficienza di un sistema previdenziale che ha dimostrato di funzionare bene. Preservarla significa anche mantenere un rapporto equilibrato tra Stato e Casse, basato su un corretto principio di controllo e vigilanza, ma anche su un coordinamento e non una subordinazione rispetto a valutazioni spesso casuali.
Le Casse di previdenza sono e devono rimanere enti privati, poiché è proprio la loro natura privatistica che ne garantisce l’efficacia. Salvaguardare questa distinzione è fondamentale non solo per tutelare gli interessi dei professionisti, ma anche per garantire un sistema previdenziale solido e sostenibile per le future generazioni.■
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