Il Passator cortese…<br> Stefano Pelloni:<br> re della strada,<br> re della foresta
In queste giornate in cui l’acqua e il fango hanno devastato il territorio di Romagna, le mie origini romagnole mi ha spinto a rileggere alcune pagine di Francesco Serantini, che così bene seppe descrivere lo spirito di quei luoghi e delle loro genti.
In particolare, di lui ci si ricorda spesso per i suoi scritti dedicati alla figura di Stefano Pelloni “Il Passatore” (Il fucile di Papa della Genga - Fatti memorabili della banda del Passatore in Romagna - L’osteria del Gatto Parlante).
Molte volte immaginato e ritratto come una figura quasi romantica, “cortese” nella poesia pascoliana, il Passatore risulta bel altro nei regesti storici.
Eppure, il personaggio che, attraverso il tempo e nonostante una lettura disincantata delle carte, ha mantenuto quell’aura rocambolesca e vagamente eroica, occupa una posizione di spicco nella storia del brigantaggio.
Il caso, seppure con definizioni ed etichette differenti, si colloca all’interno di una fenomenologia antica evolutasi e radicatasi contestualmente al vivere sociale e generalmente accompagnata dal malcontento delle classi più povere, che cercavano nella ribellione al diritto precostituito una forma di riscatto sociale, ragione per la quale alcune delle figure emblematiche di questo fenomeno sono comunque divenute popolari e leggendarie.
Nelle Romagne, a seguito della devoluzione dei territori avvenuta nel 1598 da parte degli Estensi agli Stati Pontifici, si verificò un forte aumento della povertà e del malcontento sociale nei confronti delle classi abbienti e del governo pontificio.
Iniziarono ribellioni armate e atti di violenza, che nel tempo si coagularono attorno a personaggi carismatici, come appunto, verso la metà del 1800, accadde per la figura di Stefano Pelloni.
Nato nel 1824 in una borgata nei pressi di Bagnacavallo, Stefano Pelloni “Stuvanen d’e Passador” era, come lascia intendere l’appellativo, figlio di un traghettatore sul fiume Lamone e di Maria Francesca Errani che, ironia della sorte, portava fra i cognomi di famiglia quello di Malandrì. Ella tentò di indirizzare il figlio agli studi con la speranza di vederlo frequentare il Seminario e diventare sacerdote.
Non avvenne nulla di tutto ciò e il ragazzo a tredici anni si unì a compagnie poco raccomandabili, con le quali, dopo alcuni anni formò una vera e propria banda dedita ad atti di delinquenza, divenendone il capo.
Dei suoi compagni di ventura ci piace ricordare alcuni soprannomi, quelli che la Romagna è così fantasiosa e arguta nell’attribuire alle persone: Giazzol (Tasselli Giuseppe, Mattiazza (Babini Luigi), Teggione (Montini Tommaso), Anguillone (Scheda Felice) e così via. Negli anni la banda al suo completo era costituita da circa 35 elementi, alcuni dei quali, fedelissimi al Passatore fin da ragazzi. Il mito che avvolgeva il loro capo era alimentato non solo dal terrore che seminava nelle contrade, ma anche enfatizzato positivamente da giudizi tanto lusinghieri quanto astratti e idealistici come quello che Garibaldi, dopo essere sfuggito alle guardie austriache e pontificie proprio nei territori romagnoli e toscani, scrive nel 1850 dall’America che “...le notizie del Passatore sono stupende…” e “...quel bravo italiano non paventa di sfidare i dominatori”.
Anche le ricompense elargite a chi, sfidando la legge, lo ospitava offrendogli nascondigli o i denari lasciati a donne compiacenti corroborarono la sua fama di colui che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”.
Le scorribande della banda del Passatore avevano terrorizzato con ruberie, stupri e violenza la maggior parte delle cittadine di Romagna: Cotignola, Brisighella, Faenza, Forlì, solo per fare qualche esempio. Vi furono assalti alle diligenze, come quello avvenuto a Boccaleone nei confronti della diligenza pontificia, ma la più spettacolare e forse anche la più redditizia delle sue imprese, quella che più di altre è passata alla storia, avvenne la notte del 25 gennaio del 1851, con l’irruzione dei briganti nel Teatro Comunale di Forlimpopoli. Qui, dopo aver reso inermi le guardie della città, i banditi guadagnarono l’entrata nel teatro, dove il pubblico, costituito prevalentemente dai maggiorenti del luogo già gremiva palchi e platea. Al sollevarsi del sipario, con terrificante sorpresa, le signore ingioiellate in abito da sera e gli uomini elegantemente vestiti si trovarono innanzi la banda del Passatore ad armi puntate.
Grazie all’ausilio di un prete, tale Don Valgimigli, che affiancava la Banda, fu redatto un elenco nominale del pubblico, in tal modo gli astanti furono chiamati uno ad uno e obbligati a consegnare quanto di prezioso avessero con sé, ma tredici malcapitati dovettero anche aprire le loro case ai banditi e, consenzienti loro malgrado, farsi derubare per evitare il peggio e anche assecondare i malviventi nella loro opera!
Questo accadde a tale dottor Ricci, che oltre ad essere derubato dovette anche condurre la banda a casa della famiglia Artusi, la famiglia benestante di Pellegrino Artusi, gastronomo e letterato divenuto noto per il suo trattato sull’arte di mangiar bene. Per il terrore e la violenza subita durante l’irruzione, una delle sorelle dell’Artusi impazzì e mori anni dopo nel Manicomio di Pesaro.
Il bottino ricavato, consistente in circa seimila scudi (corrispondenti a circa centocinquantamila euro) venne riportato in teatro alla vista di tutti e riversato su di un tavolo a dimostrazione dell’esproprio della ricchezza. Forse anche questo gesto contribuì alla fama del Passatore, benefattore dei poveri a scapito dei ricchi.
Ma le sorti del Passatore non si conclusero in gloria. Dopo i fatti di Russi, una grossa taglia di tremila scudi era stata messa sulla sua testa e inoltre numerose pattuglie battevano il territorio.
Il 23 marzo del 1851, Pelloni col fedelissimo Giazzol, aveva trovato rifugio in un capanno, ben costruito e ritenuto luogo sicuro, nella campagna di Russi. Ma la sicurezza del rifugio non impedì a tale Vincenzo Querciola detto Bruccione di avvistare i due figuri. In breve, avvisò i Sussidiari di Russi e, giunti i gendarmi in ragione di 14 elementi fra gendarmi, militi pontifici e sussidiari, si aprì una violenta sparatoria.
I due briganti uscirono dal capanno e, certi di potersi difendere con le armi, tentarono la fuga. Mentre il Giazzol riusciva nell’intento, il Passatore rimaneva colpito a morte da un proiettile sparato da Apollinare Fantini, sussidiario della gendarmeria volontaria.
Il cadavere fu esposto su di un carro che, dopo aver fatto il giro delle Romagne e dei paesi che il passatore aveva “visitato” in vita, giunse a Bologna dove finalmente in un campo sconsacrato del Cimitero della Certosa di Bologna, Stefano Pelloni fu sepolto.
Quello del Passatore è quasi un mito della Romagna, ma allargando l’orizzonte spaziale e temporale, ci accorgiamo che il brigantaggio ha origini ben più remote. Certamente negli anni che precedettero l’unità d’Italia e in quelli immediatamente successivi, esso si diffuse, soprattutto, ma non soltanto, nei territori del Sud, mescolandosi ai moti popolari e accomunando alle azioni criminose una giusta richiesta di riscatto sociale delle popolazioni più vessate.■
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