Il Coronavirus colpisce anche la Biennale di Venezia “Siamo costretti a rinviarla”

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L’emergenza sanitaria obbliga gli organizzatori a posticipare l’inizio dell’evento al prossimo anno

L’ emergenza Coronavirus colpisce anche la 17^ edizione della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. L’evento, dopo un’iniziale riprogrammazione del calendario, è stato rinviato al 2021. Non cambia il programma di “How will we live together?”, mostra curata da Hashim Sarkis, che avrebbe dovuto svolgersi a Venezia dal 29 agosto al 29 novembre 2020. Inizierà, invece, sabato 22 maggio e si concluderà domenica 21 novembre 2021.
“La decisione di posticipare a maggio 2021 la Biennale Architettura è una presa d’atto dell’impossibilità di procedere nella realizzazione di una mostra così complessa e di respiro mondiale, a causa del persistere di una serie di difficoltà oggettive dovute all’emergenza sanitaria internazionale in corso”, spiegano gli organizzatori in una nota. La situazione di emergenza ha pregiudicato “la realizzazione, il trasporto e la presenza delle opere e di conseguenza la qualità della mostra stessa”.
“In un contesto caratterizzato da divergenze politiche sempre più ampie e da disuguaglianze economiche sempre maggiori, chiediamo agli architetti di immaginare degli spazi nei quali vivere generosamente insieme”. È questo l’appello che Hashim Sarkis, curatore della Biennale d’Architettura e preside della School of Architecture and Planning al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha lanciato ai suoi colleghi. La condivisione è – spiega – il rimedio all’individualismo e alle crisi del pianeta. Ma sottolinea anche all’esigenza di un nuovo “contratto spaziale” che incoraggi il suo vero custode, l’architetto, a coinvolgere nella propria ricerca altre figure professionali e gruppi di lavoro. Artisti, costruttori, artigiani, dunque, ma anche politici, giornalisti, sociologi, cittadini. “Questa mostra – precisa Hashim Sarkis – vuole affermare l’idea che è proprio in virtù della sua specificità materiale, spaziale e culturale che l’architettura orienta i vari modi di vivere insieme”.
Con l’interrogativo “How will we live together?” (“Come vivremo insieme?”) che dà il titolo all’edizione di quest’anno, Sarkis cita Aristotele che “quando si pose questa domanda per definire la politica, propose il modello di città”. Il mondo cambia e l’architettura deve cambiare con lui. È su questo punto che la Biennale di quest’anno si interroga: quali strade seguire? Una strada è forse tracciata dall’attivismo emergente di giovani architetti – chiamati a proporre alternative – e alle revisioni radicali concepite dalla pratica dell’architettura per affrontare queste sfide.
La Mostra, come da anni, sarà ospitata dal Padiglione Centrale e dai Giardini, oltre che dall’Arsenale e da Forte Marghera. Saranno 114 i partecipanti in concorso, provenienti da 46 paesi diversi. La partecipazione diventa sempre più variegata con una più forte presenza di architetti africani, sudamericani e asiatici.
 
Leong Leong, “View from Santa Monica Boulevard with Adminstrative Offices to the left and Youth Housing to the right,” Anita May Rosenstein Campus, 2019. Courtesy Iwan Baan
 
Olalekan Jeyifous and Mpho Matsipa, Liquid Geographies, Liquid Borders, 2020. Courtesy Olalekan Jeyifous Olalekan Jeyifous and Mpho Matsipa, Liquid Geographies, Liquid Borders, 2020. Courtesy Olalekan Jeyifous
 

Lina Ghotmeh — Architecture, “Stone Garden North Façade”, Stone Garden under construction a year ago, 2020. © Takuji Shimmura


Al di là della canonica mostra, la Biennale Architettura 2021 ospiterà la Stations + Cohabitats, ricerche fuori concorso sui temi della Mostra, sviluppate da ricercatori di università di tutto il mondo.
Saranno 63 le nazioni partecipanti all’esposizione negli storici Padiglioni dei Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, con tre interessanti new entry: Grenada, Iraq e Uzbekistan. Il Padiglione Italia sarà collocato alle Tese delle Vergini (Arsenale). Sostenuto e promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, sarà curato da Alessandro Melis.
Al Padiglione delle Arti Applicate (Arsenale, Sale d’Armi) sarà presentato dalla Biennale di Venezia e dal Victoria and Albert Museum, per il quinto appuntamento consecutivo, il Progetto Speciale dal titolo – in questa edizione – British Mosques. In collaborazione con l’architetto Shahed Saleem, il padiglione vuole raccontare la realtà delle moschee faida-te che si sono diffuse in occidente. Tre gli esempi: la moschea di Brick Lane – una cappella protestante divenuta poi sinagoga –, la moschea di Old Kent Road realizzata in un vecchio pub, e la moschea di Harrow Central, costruita accanto alla casa a schiera che ospitava precedentemente i fedeli. “Un tema costante in tutti questi anni è stato quello dei vantaggi sociali che possono derivare dalla presenza dell’Architettura”, ha dichiarato Paolo Baratta durante la conferenza stampa di presentazione, in merito al Progetto speciale. “L’architettura ci aiuta a non sperperare risorse e a donarci qualche grado di felicità”, spiega. “La Mostra di Hashim Sarkis coglie, in uno sguardo ampio, problemi strutturali della società contemporanea. In un’epoca in cui può essere diffusa la sensazione di essere vittime dei cambiamenti e nella quale molti possono approfittare delle paure, dei timori, delle frustrazioni che ne derivano per sviluppare campagne ultra difensive, ci pare utile una Biennale che richiami a tutti che l’identità di una società o di una comunità sta nella qualità dei progetti che è capace di formulare per il suo futuro”. Così, la Mostra di Architettura diviene “anche una “chiamata” al pubblico a farsi visitatore attento, testimone diretto”.
A integrare il programma della Mostra dovrebbero essere confermati i Weekends on Architecture – nei mesi di ottobre e novembre –, una serie di conferenze e incontri con architetti e studiosi da tutto il mondo che cercheranno di rispondere alla domanda How will we live together? Al centro del dibattito le nuove sfide che l’architettura dovrà affrontare di fronte all’inesorabile cambiamento climatico e il ruolo dello spazio pubblico nelle recenti rivolte urbane. Troveranno spazio anche le nuove tecniche di ricostruzione, le forme mutevoli dell’edilizia collettiva.
 
 
 

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Gregotti, l’architetto: “Un progetto deve sempre guardare al contesto”
Gregotti Associati, Progetto della sede della Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli, Milano, 1981. ©Comune di Milano, CASVA   Nonostante il grande successo riscontrato in tutto il mondo, la sua vita professionale ha avuto anche qualche ombra. Due sono le opere molto controverse che hanno visto lunghi ed estenuanti dibattiti e svariate critiche: il quartiere Zen di Palermo e l’Università di Arcavacata in provincia di Cosenza. A Gregotti l’architettura italiana deve molto, soprattutto deve la sua diffusione internazionale, grazie alle sue partecipazioni a corsi e conferenze in Gran Bretagna, Giappone, Stati Uniti e America del sud. Ha tenuto negli anni la rotta senza ascoltare il canto delle sirene che lo invitavano a seguire le mode del momento. I suoi progetti ponevano l’arte (in tutte le sue sfaccettature) al centro. Il suo amore per la musica lo si rintraccia nel progetto del Centro Culturale di Belém, firmato con Manuel Salgado. Qui Gregotti propone un ambiente interno che reinterpreta il teatro lirico: nel volume, quasi cubico, gli ordini dei palchi si allineano su pareti che piegano ad angolo retto, smontando completamente l’idea delle “finestre” che si affacciano sulla platea del tradizionale teatro a ferro di cavallo. Sempre alla musica è “consacrata” la sua sperimentazione sugli edifici che ospitano eventi musicali realizzata con il Teatro degli Arcimboldi, immaginato per sostituire la Scala in un periodo di profonde ristrutturazioni. Se a Belém la ricerca architettonica guarda all’interno, a Milano Gregotti guarda all’esterno. L’edificio si trova in periferia e contravviene alla regola non scritta per la quale un teatro lirico debba essere al centro della città. Per questo l’architetto qui ha cercato linee che potessero connettere l’edificio al contesto ex industriale. Gregotti è stato anche un grande saggista. Tra le sue opere ricordiamo “Il territorio dell’architettura” del 1966. È considerato da molti un vero e proprio classico della letteratura dello scorso secolo nel quale l’architetto affronta aspetti pratici dell’architettura, dall’utilizzo dei materiali al rapporto dell’architettura con la geografia e con la storia. In quest’opera Gregotti sviluppa una concezione della pratica architettonica non come si farebbe in un trattato “ma piuttosto come un esercizio”, volto a definire “il campo di competenza e l’articolazione esistente tra le discipline del progetto architettonico”. Insomma, da questo libro emerge un Gregotti che vuole far dialogare la geografia con i segni architettonici, sovvertendo la metodologia della progettazione. Altra nota opera è “La città visibile” del 1991. In questo libro l’autore prende atto del cambiamento che è avvenuto nei precedenti 40 anni tra gli architetti, sempre più attenti al contesto geografico e storico, con progetti che diventano “dialogo tra l’esistente e le modifiche che farà”. Il libro si pone, attraverso esempi concreti, la domanda su come progettare una città, partendo “dalla città stessa e dalla sua storia”, pur rimanendo sempre aperta la possibilità di proporre un “nuovo stato di equilibrio”, che si basi su “riordino e chiarezza”, elementi imprescindibili in architettura.    " data-ellipsis-item="...">

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