Architettura senza architetti?

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Il rimedio al disagio sociale non può essere il sacrificio della qualità

Dopo i precedenti tentativi, la XV Biennale d'architettura di Venezia ha accantonato le archistar, per sviluppare un ragionamento sulle istanze sociali degli abitanti delle aree degradate. Aravena ha una provenienza differente dei suoi predecessori, al punto che, propugnata da lui, “l'architettura senza architetti” ha perduto la connotazione di chi insegue un concettuale spontaneismo felice, e critica il disallineamento tra le istanze sociali delle masse sfavorite e il ruolo di un'architettura globale, che finisce per identificarsi in esibizioni tecnologiche per sceicchi e capitalisti cinesi. La polemica di Aravena tende a nobilitare la povertà – brutta da vedere ma ideologicamente innocente – delle masse diseredate e d'interpretare un'istanza dal basso, per trasformarla in una spinta vitale.

 

Il tutto, in quel solco che nel 900 ha portato in modo ricorrente alcuni architetti alla rivolta ideologica contro le forze che hanno calpestato oltre il tollerabile il bene collettivo. È così nuovamente evidente, che di fronte a bisogni essenziali come la casa, urbanistica e architettura possono ritornare a essere un bene pubblico primario; anche questo nobile atteggiamento non ha nemmeno rallentato le esibizioni d'orgoglio che le grandi Firm continuano a interpretare in tutto il mondo, a richiesta di poteri forti pubblici e privati.

 

Purtroppo, tra l'arroganza dell'oligarchia internazionale e lo squallore delle favelas risanate come modello diffuso, non vi sono più spazi per le espressioni di ceti produttivi, tradizioni, stili di vita e consapevolezze culturali, che hanno fatto la fortuna e l'equilibrio sociale dei Paesi dell'Occidente. Sembra che il saper interpretare i bisogni intermedi e instillare la qualità nelle occasioni diffuse non interessi più a nessuno: né ai populisti delle università d'avanguardia, né ai committenti delle archistar; tutti soggetti che disprezzano le aspirazioni al benessere e alla stabilità di coloro che nei Paesi dell'Occidente si trovano tra la ricchezza e la povertà.

 

Se è così, gli architetti del nostro Paese sono le vittime naturali di questo strabismo, poiché non hanno più mercati, pur avendo configurato un modello di qualità diffusa, che invece potrebbero trovare nei Paesi in via di sviluppo, dove il divario sociale è fortissimo. Rischiano invece di sparire, nel processo di disintermediazione che ha colpito i sindacati, la politica e la “rappresentanza” in generale, poi le istituzioni e che ora erode i saperi applicati, concentrati nelle libere professioni.

 

Gli architetti e gli ingegneri hanno a nostro avviso soltanto una via per sfuggire a questa morsa mortale, che è quella di distinguersi dalle posizioni mercantilistiche di produttori di servizi troppo costosi, invisi all'opinione pubblica, per rifocalizzare la propria immagine sui valori, principalmente etici e culturali, di chi con il proprio sapere può porsi come “mediatore culturale” tra Stato, Istituzioni e cittadini, come promotore dei diritti fondamentali di cittadinanza nella difesa della bellezza, del territorio e del paesaggio. Un tentativo difficile e forse tardivo, che deve iniziare con il rilancio dei valori etici e sociali del lavoro intellettuale.

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