Italia in declino demografico Cala la popolazione e gli stranieri non bastano
L’Italia è ufficialmente in declino demografico. Dal 2015 la popolazione residente sul territorio nazionale è in diminuzione. Aumentano, invece, le persone che lasciano il Paese per andare a vivere e lavorare all’estero. Secondo i dati Istat pubblicati a luglio, dal 1° gennaio al 31 dicembre 2018, la popolazione italiana è diminuita di 124 mila unità, pari a -0,2% del totale. Si tratta del quarto anno consecutivo in cui il numero della popolazione decresce: dal 2015 a oggi l’Italia ha perso 400 mila abitanti, pari alla popolazione della città di Bologna. Si tratta di un declino che avrà certamente ricadute di tipo previdenziale, poiché la popolazione nel suo complesso invecchia sempre di più e il rapporto tra attivi e inattivi rischia di diventare insostenibile.
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È dal 2008 che si registra in Italia un calo delle nascite. Nel 2015 il numero dei nati è sceso sotto il mezzo milione, mentre il 2018 registra il record negativo dall’Unità d’Italia con solo 439.747 bambini nati. Rispetto al 2017, la diminuzione delle nascite è pari al 4%, con oltre 18 mila bebè in meno.
Il fenomeno interessa pressoché tutto il territorio nazionale, ma è più marcato nelle regioni centrali. Secondo l’Istat il fenomeno della diminuzione è legato principalmente all’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni più numerose come quella del cosiddetto baby boom, e la loro sostituzione da parte di una generazione decisamente meno numerosa che è nata dopo la metà degli anni Settanta.
Infatti, il tasso di fecondità in Italia (numero di figli per donna), pur rimanendo ben al di sotto del tasso di sostituzione che è pari al 2,1, è pressoché costante dalla fine degli anni Ottanta, con una lieve flessione negli ultimi nove anni dopo una crescita nei primi anni Duemila, dovuta in primo luogo all'aumento della presenza di donne straniere.
Oggi il tasso di fecondità si attesta all’1,32 (dati 2018), sensibilmente inferiore a quello di Germania (1,6) e soprattutto Francia (1,9). Negli ultimi anni, infatti, complice probabilmente la crisi economica, il numero degli stranieri residenti in Italia si è stabilizzato; ha invece iniziato a ridursi il numero di stranieri nati in Italia, pari a 65.444 nel 2018 (il 15% del totale dei nati) dovuto, in parte, alla diminuzione dei flussi femminili in entrata nel nostro Paese dal 2010 e, in parte, al progressivo invecchiamento anche della popolazione non italiana. La natalità non è però omogenea su tutto il territorio nazionale. La provincia di Bolzano vanta il record positivo con 10 nati ogni mille abitanti, mentre Sardegna e Liguria detengono il record negativo, rispettivamente 5,7 e 5,8 nati ogni mille abitanti.
Oltre alla bassa natalità, contribuisce al declino demografico anche l’emigrazione. Se nel 2008 emigravano 80 mila persone, dieci anni dopo (nel 2018) il numero è più che raddoppiato, raggiungendo le 157 mila unità, con una crescita rispetto al 2017 di 2 mila unità.
Dall’altra parte se nel 2008 migravano verso l’Italia circa 500 mila persone, nel 2018 i flussi di entrata si sono ridotti di 332 mila unità (-3,2% rispetto al 2017). Il saldo con l’estero rimane positivo ma si va assottigliando con +175mila unità, non più sufficienti a frenare il declino demografico del Paese.
Se da una parte diminuisce il numero dei decessi, dall’altra il saldo tra nascite e morti è infatti negativo tra gli italiani (-251 mila unità); per gli stranieri è ampiamente positivo (+57.554), per effetto di una natalità maggiore e di un’età media inferiore rispetto alla popolazione italiana.
Se non si interviene prontamente e con misure idonee, il declino demografico dell’Italia assumerà dimensioni “catastrofiche”. Nel suo “scenario mediano”, l’Istat ipotizza nei prossimi 50 anni un progressivo calo della popolazione italiana: dai 60,4 milioni del 2018 si dovrebbe passare ai 58,8 milioni del 2045 e ai 53,8 del 2066, con una riduzione di quasi 7 milioni.
Nelle altre maggiori economie europee, gli scenari demografici appaiono più favorevoli: la Germania, in base ai dati Eurostat, evidenzia un leggero decremento, mentre la popolazione è prevista crescere in Francia, Spagna e Regno Unito. Come illustrato in un precedente articolo della Rivista (n. 2/2018), il calo della popolazione riduce in prospettiva il potenziale di crescita dell’economia. È esattamente il contrario di quanto era accaduto nel secolo scorso, quando dinamiche demografiche favorevoli avevano contribuito alla rapida crescita dell’economia italiana; adesso, l’effetto negativo della transizione demografica rischia di influenzare negativamente il mercato del lavoro, la produttività e, in ultima battuta, la crescita economica di lungo periodo.
Il declino demografico si accompagna al costante invecchiamento della popolazione italiana: si fanno meno figli e la vita continua ad allungarsi. Nel 2018, l’aspettativa di vita residua a 65 anni superava i 19 e i 22 anni, rispettivamente, per uomini e donne. A fronte del calo della popolazione fino a 14 anni e di quella in età attiva (15-64 anni), l’unica ad aumentare è la popolazione anziana: nel 2018 gli over 65 rappresentavano quasi il 23% della popolazione complessiva.
Il processo di invecchiamento manifesterà i suoi effetti anche sugli equilibri finanziari dei sistemi di welfare. Da un lato, il significativo aumento della speranza di vita media determinerà un aumento della spesa per pensioni e per assistenza. Dall’altro, il calo della popolazione in età attiva, anche per effetto del passaggio dei baby boomers dalla fase attiva a quella di quiescenza, determinerà minori entrate contributive.
Secondo l’Ocse, l’impatto sul welfare e più in generale sulla finanza pubblica italiana sarà pesante: il rapporto tra over 50 inattivi o pensionati e popolazione occupata, oggi pari al 68%, dovrebbe infatti superare nel 2050 il 100%, cioè più pensionati che lavoratori. In Germania il rapporto è stimato salire al 65%; livelli superiori sono previsti per la Francia (80%) e la Spagna (89%), ma comunque inferiori al 100%.
Le previsioni Ocse per l’Italia derivano dall’effetto congiunto di più fattori: una transizione demografica più forte (in termini di aumento dei pensionati e calo degli attivi), unitamente a condizioni peggiori di partecipazione al mercato del lavoro.
La ricetta Ocse punta a promuovere l’”occupabilità” (employability) delle persone durante l’intero arco della vita lavorativa, ampliando le opportunità di lavoro per gli over 55 e le donne. Tra gli interventi, vi sarebbe il ricorso a politiche attive, alla formazione continua, alla flessibilità nell’orario di lavoro, alla creazione di un sistema di incentivi al lavoro e disincentivi all’uscita anticipata.
Anche i regimi previdenziali delle Casse saranno investiti da queste dinamiche, tanto più che i liberi professionisti presentano una mortalità inferiore a quella della popolazione italiana.
Per gli ingegneri e architetti iscritti ad Inarcassa, la speranza di vita a 66 anni è più elevata di quasi 2 anni rispetto alla media nazionale. La piramide della popolazione di Inarcassa, oggi caratterizzata da una distribuzione a favore delle fasce di età più basse, tenderà ad assottigliarsi alla base e ad allargarsi nelle fasce di età più anziane. Venti anni fa, nel 2000, gli under 40 erano poco meno del 45% degli associati alla Cassa. Tra 10 anni, nel 2030, si prevede si riducano a poco più del 20%. Al contrario, la quota degli over 65, pari al 10% nel 2000, dovrebbe portarsi nel 2030 al 27%. L’indice di dipendenza degli anziani per la popolazione della Cassa, ossia il rapporto tra over e under 65, pari al 24% nel 2000, dovrebbe superare il 100% nel 2030 (117%). La transizione demografica di Inarcassa: tra poco più di 10 anni, nel 2030, gli under 40 scenderanno al 23%, mentre gli over 65 raggiungeranno quasi un terzo del totale degli associati. Il rapporto tra iscritti e pensionati, oggi pari a 4,9, è previsto ridursi progressivamente a 1,3 nel 2045, per tendere all’unità nel 2067. ■
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