Dopo il crollo del Ponte di Genova nasce il Siscon

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I recenti eventi di crolli e degrado generalizzato, in parte sorprendente, delle infrastrutture e delle costruzioni pongono l’ingegnere civile, oggi, nelle condizioni di dover aggiornare le proprie conoscenze studiando direttamente le strutture reali esistenti, nella loro scala globale e in sito. Per questo è nato il nuovo Centro sulla Sicurezza delle Infrastrutture e delle Costruzioni “SISCON – Safety of Infrastructures and Constructions” del Politecnico di Torino, il cui obiettivo è quello di studiare il comportamento strutturale di manufatti esistenti su scala reale, mediante un approccio olistico che accosti, alla sperimentazione meccanica sugli elementi (anche direttamente in sito), la valutazione multi-scala delle caratteristiche dei materiali (degrado, attacchi chimici, corrosione, perdite di adesione, ecc...) nelle reali condizioni di esercizio. Per raggiungere questi obiettivi si introdurranno sistemi di monitoraggio e di controllo “attivo” anziché passivo, che richiedono la progettazione specifica per ciascun manufatto e quindi lo sviluppo di un sistema customizzato, centrato sulle peculiarità strutturali proprie dell’opera monitorata. Il Centro può quindi rappresentare il fulcro di un nuovo approccio nel monitoraggio delle infrastrutture. Il tragico evento rappresentato dal crollo del Ponte Morandi ha infatti innescato, nel sonnecchiante mondo dell’ingegneria civile, un improvviso attivismo. Un attivismo che in alcuni casi rischia di portare a un approccio semplicistico alla sicurezza delle infrastrutture e degli edifici. Si pensi, per esempio, alla determinazione del cosiddetto “livello di conoscenza”, per il quale la normativa vigente si limita a indicare, piuttosto genericamente, l’obbligo di svolgere un certo numero di test su piccoli campioni di materiale estratti dalla struttura, correlando la confidenza raggiunta al numero dei campioni testati in laboratorio. In questo modo, la rilevanza statistica acquisita sulla sola resistenza dei materiali viene artificialmente trasferita – tramite software – alla verifica del comportamento globale della struttura.

D’altro canto, la riduzione dei costi delle apparecchiature e soprattutto dei sensori elettronici spinge a realizzare sistemi di monitoraggio passivo, sostanzialmente basati sulla registrazione di spostamenti, rotazioni ed eventuali oscillazioni dinamiche in alcuni punti della struttura e sulla trasmissione di tali valori a centrali operative in grado di attivare allarmi se essi superano certe soglie predeterminate. Emblematico il caso di un viadotto autostradale, monitorato tramite nugoli di sensori di spostamento e rotazione, i quali per mesi hanno fornito valori allarmistici di deformazione tanto da portare il gestore a inibire la circolazione. Le successive indagini sul campo hanno tuttavia rilevato le buone condizioni dell’impalcato e della soletta, incompatibili con le letture registrate. Soltanto una più attenta valutazione del reale comportamento di sistema dell’opera ha consentito di scoprire che il vettore di lettura era disposto in maniera tale da risultare eccessivamente sensibile alla cedevolezza degli appoggi, i quali avevano modificato, nel tempo, le proprie caratteristiche meccaniche. La presenza di sensori e dell’elettronica associata sembra illudere, con la complicità di molti ingegneri, spesso in buona fede e convinti della bontà di queste tecnologie, i gestori e proprietari di manufatti esistenti sulle potenzialità del monitoraggio in termini di controllo della sicurezza e di risparmio gestionale sulle ispezioni e manutenzioni. Si giunge addirittura a percepire una riduzione del rischio, che ovviamente non può assolutamente verificarsi dal momento che il monitoraggio non incide su nessuna delle tre componenti del rischio (ossia pericolosità del sito e delle potenziali azioni sull’opera, vulnerabilità del manufatto ed esposizione). Questi sistemi ricordano alcuni aspetti del corpo umano. I sensori, cosiddetti neurotrasmettitori, attivati da cause esterne o interne, inviano al cervello la sensazione del dolore che rappresenta un vero e proprio “allarme” di uno stato patologico o che consenta di intervenire di fronte a una situazione esterna potenzialmente pericolosa per il corpo umano. Tuttavia è interessante notare come il nostro sistema di “monitoraggio e controllo” possa, a volte, apparire illogico. Si pensi alla forte sensazione di dolore nei confronti della frattura di un arto, o anche solo di un mal di testa. Il superamento della soglia di dolore (allarme) porta il sistema ad allontanarsi dalla causa, evitando danni maggiori o a prendere provvedimenti di cura. Viceversa, il corpo umano non attiva il medesimo “controllo” nei confronti di eventi anche ben più gravi. È il caso, per esempio, della gran parte delle neoplasie tumorali le quali attivano sensazioni di fastidio o dolore nel corpo umano soltanto quando la loro evoluzione è già in fase avanzata e spesso, purtroppo, non più curabile. In questo c’è un’analogia con i sistemi di monitoraggio delle infrastrutture civili (Fig. 1). Le opere recentemente crollate condividevano la tecnica di costruzione in calcestruzzo armato precompresso e il loro collasso è derivato dal degrado occulto degli elementi fondamentali per la stabilità, ossia il sistema dei cavi da precompressione in acciaio, che difficilmente possono essere rilevati con le tecniche tradizionali di monitoraggio. Mentre traumi ossei, urti, punture e scottature rappresentano la quotidianità fin dai tempi dell’uomo di Neanderthal, le malattie tumorali sono insorte in tempi molto “recenti”. Pertanto, il meccanismo genetico evolutivo del corpo umano potrebbe non aver ancora sviluppato un efficace sistema di controllo per i tumori. Tuttavia, il corpo umano subisce alterazioni anche indirette per effetto dei tumori, per esempio visibili nel sangue, nel sistema linfatico e in quello ormonale. Uno dei principali scopi della ricerca oncologica è quindi l’identificazione dei cosiddetti marker, segnali che possano diagnosticare l’attivazione di una degenerazione neoplastica già dalle prime fasi, in modo da poter intervenire tempestivamente. Come avviene in oncologia, si pone oggi il problema di riuscire a evidenziare – mediante tecniche possibilmente non distruttive – gli eventuali marker della corrosione occulta nelle infrastrutture in esercizio e al contempo si aprono interessanti sfide per l’adattamento delle situazioni di degrado e il potenziamento della tecnologia del calcestruzzo armato precompresso per realizzare nuove opere durevoli e sicure. Ciò richiede una diagnosi della struttura/“paziente” che non deve essere basata sulle sole analisi di laboratorio su elementi parziali, ma che a queste integri anche indagini “full-scale” per una conoscenza il più possibile completa. L’acquisizione di conoscenza direttamente dalla struttura reale rappresenta una nuova semeiotica che modifica il paradigma tradizionale che vede l’attività di verifica normalmente condotta in laboratorio, a scale molto ridotte rispetto a quelle reali, su piccole porzioni estratte dai manufatti. Il Centro torinese nasce dalla volontà di vari dipartimenti del Politecnico di Torino di creare una nuova struttura in cui le molteplici e diverse competenze siano indirizzate e utilizzate per la valutazione della sicurezza delle infrastrutture esistenti, e per l’innovazione nella progettazione e gestione delle costruzioni. Ciò prevede, oltre alle analisi meccaniche e chimico-fisiche, anche lo sviluppo di metodologie di gestione delle reti infrastrutturali, lo studio dell’interazione tra aspetti strutturali ed economico-gestionali nello sviluppo dei piani finanziari, e l’analisi avanzata del rischio e delle problematiche a scala territoriale. L’importante stanziamento economico dall’ateneo subalpino è destinato non solo a potenziare e ampliare le strutture dei dipartimenti, come il laboratorio di materiali e strutture “Franco Levi”, ma anche ad acquisire nuove attrezzature per prove “full-scale” su strutture esistenti.

 
 

Figura 1 - Schema del nuovo apparato di prova strong wall/strong floor

Figura 2 - Schema dell'apparato di prova su travi di grande luce (immagine di Matteo Guiglia e Maurizio Taliano, 2014)


Presso la sede centrale del Politecnico di Torino (Fig. 2) sarà realizzato un nuovo banco per prove multidirezionali per elementi di lunghezza fino a 12 metri. Presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologie sarà potenziato il laboratorio per prove chimico-fisiche sui materiali da costruzione (cementi, calcestruzzi e acciaio). In merito alle prove full-scale, sarà realizzata una struttura sperimentale “mobile” in grado di attrezzare un campo per prove meccaniche su elementi a grandezza reale a piè d’opera o in siti appositi. Questa possibilità rappresenta un cambio di paradigma notevole nel campo dei test infrastrutturali e finalmente consentirà di studiare alcuni aspetti fondamentali delle strutture in calcestruzzo armato, in calcestruzzo armato precompresso e acciaio in scala reale, come la capacità portante residua, lo sforzo di precompressione residuo, l’entità e gli effetti del degrado e della corrosione, mediante test distruttivi e non distruttivi. A tal proposito, SISCON è già stato coinvolto in una attività di ricerca indirizzata a valutare le prestazioni residue a fine vita del viadotto di interscambio Corso Grosseto – Corso Potenza a Torino, recentemente dismesso dopo 50 anni di utilizzo. L’obiettivo principale sarà quello di diagnosticare lo stato di sicurezza residuo dell’opera, l’eventuale estensione della sua vita utile e l’inclusione, o esclusione, di azioni originariamente non prese in conto. Si cercherà anche di testare le più moderne tecniche di consolidamento strutturale e la loro potenziale applicabilità ai casi reali¹. Si ritiene che questo studio potrà avere una ricaduta notevole nella gestione del patrimonio infrastrutturale esistente, composto da un enorme numero di strutture in cemento armato e in cemento armato precompresso che, come detto, presentano purtroppo evidenti fenomeni di degrado del calcestruzzo e di corrosione delle armature e nei trefoli pretesi. 



1. Si ricorda che la Scienza delle Costruzioni insegna che il comportamento delle strutture a grande scala può essere anche molto differente da quello dei modelli alla scala del laboratorio, per la presenza dei cosiddetti Effetti Scala sulla resistenza e duttilità delle membrature.

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