Rudy Ricciotti, ricerca tecnica e ricerca formale

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Poesia e struttura della materia, secondo uno dei maggiori architetti sulla scena internazionale

Rudy Ricciotti nasce ad Algeri nel 1952 da genitori di origine italiana, di Fossato di Vico in Umbria per la precisione. Grazie alla sua straordinaria capacità di far dialogare il contesto urbano e naturale con l’innovazione tecnologica, l’architetto francese di Bandol (Marsiglia) può essere considerato uno dei maggiori architetti presenti sulla scena internazionale. Attraverso questo breve scritto ci interessa segnalare l’opera di un collega che si pone all’avanguardia nello sviluppare il rapporto tra ricerca tecnica e ricerca formale e di come queste due attività si condizionino e supportino in un inevitabile gioco di collaborazione tra architetto, ingegnere e grandi società produttrici di materiali per l’edilizia. In particolare Ricciotti si è occupato delle possibilità di utilizzo del “Béton Fibré à Ultra-hautes Performances”.

Si tratta di un cemento che ha trovato le sue prime applicazioni nelle strutture di fondazione delle torri di raffreddamento nelle centrali nucleari di Cattenom e Civaux in Francia. Il suo primo utilizzo in architettura lo abbiamo con la “passerella della pace” di Seoul, un progetto del 1999 realizzato nel 2002, che segnerà un cammino di ricerca che lo porterà in pochi anni alla realizzazione di importanti e innovativi progetti come la “villa Navarra” (2002-2008), “le Pont du diable” (2005-2008), il “Museo delle civiltà d’Europa e del Mediterraneo” (2004-2013) e lo stadio del rugby di Jean Bouin (2007-2013), compiuti in collaborazione con il figlio Romain che si è occupato degli aspetti strutturali delle opere.

È però dal 1994, con lo stadio per il rock di Vitrolles (Marsiglia, 1994-1997) che Rudy Ricciotti inizia una intensa e proficua attività professionale votata all’uso del cemento armato, sia come principale elemento espressivo delle sue architetture, sia come strategia ambientale impegnata nella difesa di un materiale che, grazie alla sua catena corta di produzione, comporta un dispendio di energia nettamente inferiore rispetto alle opere realizzate in acciaio.

Un modo di pensare e di realizzare l’architettura che, usando sottoprodotti industriali come fumi di silice e fibre metalliche, non comporta alcun tipo di esaurimento delle risorse naturali, già scarse. Le prospettive sono entusiasmanti: si riescono a produrre, con pochissima materia prima, delle opere di grande potenziale meccanico, con una matrice strutturante chiusa, ermetica e quindi di grande durata rispetto ad altre tecniche.

Queste scelte sono dettate inoltre da un aperto impegno culturale e politico a favore delle imprese e delle maestranze che lavorano con questo materiale, un savoir-faire radicato nella storia della Francia come del suo paese d’origine, l’Italia, che lui vede in competizione, se non in conflitto, con il mondo dell’acciaio “anglosassone”.

Due studi comparativi condotti sulla passerella del Pont du Diable e lo stadio Jean Bouin, realizzati in UHPC, e su opere realizzate in acciaio mostrano un risultato decisivo, con rapporti da 1 a 3 e 1 a 10 nel dispendio di energia, indipendentemente dalla durata delle opere.

Si tratta quindi di spendere più soldi per la “materia grigia”, capace di ottimizzare e sviluppare materiali radicati nella nostra cultura e nel nostro suolo, che per materie prime non rinnovabili.

Tutti questi aspetti sono raccontati e argomentati in un testo affascinante curato da Carmen Andriani, “Cemento Futuro”, edito da Skira nel 2016, che ospita un’intervista a Romain Ricciotti ricca di informazioni sulle potenzialità e sui possibili sviluppi di questo particolare cemento. Il libro affronta nel dettaglio i vari aspetti che legano la progettazione architettonica a un materiale straordinario che si presta a inaspettate possibilità di sviluppo segnate e testimoniate dalle opere di Rudy Ricciotti, uno dei maggiori interpreti a livello mondiale di questo generoso materiale.

Rudy Ricciotti

 

La carriera professionale di Rudy Ricciotti è lunga e varia, prodiga di colpi di scena. Nei concorsi degli ultimi quindici anni si è imposto sui maggiori architetti contemporanei affermandosi come una delle menti più creative sulla scena internazionale. Si tratta di una figura complessa che si apre a diverse letture. Architetto, saggista, collezionista d’arte, oscilla tra il rigore delle professione e la provocazione intellettuale che, nella dissimulazione del paradosso, agisce con violenza, ironia e piacevole istrionismo. L’originalità del personaggio ha fatto si che critici e giornalisti indugiassero sugli aspetti più pittoreschi della sua figura. Ma un’analisi più attenta permette di porre in evidenza il carattere principale delle sue architetture. Si tratta di una ineguagliabile capacità di mettersi in relazione con il contesto, di dialogare con le sue ragioni profonde. Più impegnativi sono i vincoli più forte è la risposta.
 
Se l’architettura deve significare Ricciotti riesce a dare un senso preciso a tutti i suoi principali interventi, come se questi fossero sorti ascoltando direttamente i luoghi in cui sono stati costruiti, la loro storia, la tensione sociale che li anima e ne esige un cambiamento. Il rapporto dialettico è talmente intenso da trascendere le ragioni stesse della composizione e delle risposte funzionali. La soluzione si apre a questioni di ordine culturale più ampio, cercando un confronto sui risvolti economici, e inevitabilmente politici, che il fare architettura comporta. La lucidità e la radicalità con cui sono affrontati i quesiti spesso sconfina in atteggiamenti formali e teorici decisamente scomodi, se non eversivi. Si tratta di una strategia di combattimento che ha molteplici obiettivi da colpire. Il primo bersaglio è lo stereotipo che ritrae il sud della Francia, e i sud in genere, come volgari e folcloristici. Ricciotti fa sua questa volgarità e la trasforma in una materia creativa ad alta efficienza narrativa, culturale e tecnica.
 
Rudy Ricciotti è un personaggio complesso e spigoloso che è stato capace di realizzare architetture di portata storica come lo stadio per il rock a Vitrolles e il MUCEM di Marsiglia. Il confronto con la personalità di Caravaggio, così come descritta da Giulio Carlo Argan, ci è forse di aiuto per comprendere con maggiore chiarezza il profilo umano e professionale di un architetto che dietro un sapiente uso della luce e della materia nasconde un forte e fecondo coinvolgimento emotivo:
 
La sua fu una vita vissuta con un’estrema tensione morale, e una pittura con una forte carica rivoluzionaria. Il suo realismo nasce da una condizione provinciale, che lo porta ad accettare la dura realtà dei fatti, nello sdegnare le convenzioni, nell’assumersi le massi-me responsabilità. Ciò significa: escludere la ricerca del «bello» e puntare al vero; rinunciare all’invenzione, stare ai fatti; non mettere in pratica un ideale dato, ma cercare ansiosamente un esito ideale nella prassi impegnata della pittura; contrapporre il valore morale di questa prassi al valore intellettuale delle teorie. Facendo la pittura si rifà o rivive il fatto: se ne scoprono i motivi profondi, gli esiti trascendenti. È forse una la cultura della provincia contro quella della capitale*.
 
Nell’architetto francese il piacere estetico si fonde con la necessità di manifestare un impegno morale: tutto ciò si esprime nella scelta di materiali grezzi e poveri, contrassegnando la volontà di sviluppare le proprie ricerche formali nell’ambito di una consistente riduzione dei costi di realizzazione. Egli abbandona l’illusione della ‘precisione’ accentuando il gusto per il ‘pressappoco’ costruito. Un gusto che nel caso di Ricciotti assume il connotato di un vero e proprio programma d’azione: la ricerca di un piacere che nasce dall’incontro tra l’imprecisione e il rigore dell’approssimazione, un piacere sfida, un piacere estetico. Questo modo di operare trova le sue origini nel razionalismo storico, nel suo rigore scientifico, nella ricerca tecnologica avanzata che amava contaminarsi con “forme a reazione poetica”. La costante ricerca sulle potenzialità di nuovi materiali costruttivi gli ha consentito di individuare due strategie compositive la cui sintesi si realizza dopo un intenso rapporto dialettico. Nella prima vengono esplicitati i sistemi base della forma architettonica: l’involucro, la struttura, lo spazio e il percorso; nell’altra si costruisce un mondo immaginario, in cui entrano in gioco memoria ed etica, in quanto nel sogno della realtà c’è sempre anche la voglia di cambiarla. Il giudizio sul valore di questa sintesi nasce dalla comprensione e dall’accettazione, o quanto meno da un’affinità, con il profilo etico che la determina. Questa strategia compositiva permette di realizzare una base neutra per raccontare l’inenarrabile, un enigma lampante eppure quasi impercettibile, minimale. L’architetto sembra affermare che la natura umana rivela sempre un aspetto romantico e uno analitico: sensualità e minimalismo non si annullano a vicenda, bensì coesistono, dimostrando di essere forme diverse attraverso cui uno stesso fenomeno si manifesta.
 
* Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, vol. III, Firenze, Sansoni, 1973, p. 271.

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