Ritorno a Mutonia

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Il dolmen d’acciaio che si staglia al centro del piazzale di Mutonia

L’apparizione dei Mutoid al Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna del 1990 si rivela sorprendente. Una danza selvaggia di incredibili mezzi meccanici tra fiamme, polvere, fumo, luci abbaglianti e musica a tutto volume; rottami rombanti su quattro ruote, su due e persino su una ruota sola, enorme e dentata. I Mutoid sono gli artisti della Mutoid Waste Company, un collettivo cresciuto artisticamente e politicamente nella Londra dell’esplosione punk. Le loro prime esibizioni prendono corpo alla Car Breaker Gallery di Freston Road (l’autoproclamato stato libero di “Frestonia”) e nel magazzino occupato di King’s Cross, sono show a base di enormi sculture mobili fatte per lo più con rottami di automobili, ispirati dall’immaginario distopico dei film di Mad Max e dei fumetti di Judge Dredd. Fuoriusciti dal loro Paese con l’affermarsi delle politiche tatcheriane e passati in Spagna e in Germania, sono a Berlino nel 1989, dove, tra grida assordanti e rulli di tamburo, con un’enorme macchina su binari che porge una colomba alle esterrefatte guardie di confine, lanciano un messaggio di pacificazione che anticipa la caduta del muro. L’anno successivo, ancora del tutto sconosciuti in Italia, vengono inaspettatamente scritturati dagli organizzatori del Festival di Santarcangelo e ospitati in una cava abbandonata lungo il fiume Marecchia, per allestire il loro show. Doveva essere soltanto la sistemazione occasionale di un gruppo di artisti eccentrici di passaggio, ma è il seme da cui nascerà Mutonia.

Un gazebo e altre opere nel piazzale di Mutonia

Ero stato allora, come tanti altri, a curiosare e scattare qualche foto nell’insediamento sulla riva del fiume, ci ritorno dopo più di trent’anni, sotto il sole di un ottobre che sa ancora d’estate. Vado a vedere che cosa è cambiato, a incontrare i suoi abitanti e raccontare cosa fanno. Varcato l’ingresso riconosco i due capannoni della vecchia cava, sono ancora lì, sono invece sparite le imponenti strutture metalliche dei nastri trasportatori e le montagne di ghiaia sul greto del fiume. Mi ritrovo in una larga strada bianca circondata dagli alberi e immersa nel silenzio. Un dolmen costruito con le cabine di due camion e una Fiat 500 si innalza tra manufatti di ogni genere, tra cui non è facile distinguere le opere d’arte dalle abitazioni degli artisti e dai loro strumenti di lavoro e mezzi di trasporto. È subito chiaro che a Mutonia quello che sembra ruggine non è corten, è vera ruggine. Per un attimo mi domando come possa esistere un luogo simile, ma conoscendone la storia (riassunta nella scheda che accompagna l’articolo) so che la vicenda di Mutonia è un’avventura unica, segnata da coincidenze e colpi di scena. Mentre guardo intorno, mi viene incontro Fulvio, il comune amico che ha preso i contatti con alcuni degli artisti che sono qui da più tempo e, che per questo, possono chiarirmi diverse cose su Mutonia e la sua comunità. Incontriamo Nikki.
Scozzese, ancora indubbiamente punk, anfibi ai piedi e cresta a cimiero, tra i primi ad essere arrivati. Ci presentiamo e subito mi confida orgogliosa di avere la figlia maggiore iscritta al quarto anno di architettura. La sua è certamente una delle abitazioni più caratteristiche del villaggio; pare uscita dalle pagine de “Le città invisibili”. È una vecchia corriera, metà di lamiera rossa e metà di legno, arrivata chissà come fino qui e che ora sta sospesa a un metro dal suolo, circondata da un’impalcatura in tubi Innocenti innalzati per reggere dei leggeri teli ombreggianti. Lì vicino il suo atelier/deposito, sommerso da manichini, fanali di auto, specchi e oggetti di ogni genere. Andiamo insieme da Lu Lupan. Venuta da Conegliano Veneto nel ’95, doveva restare due settimane e non se n’è più andata, qui ha messo su famiglia e ha cresciuto i figli.

Sculture zoomorfe e mostri fantastici

Ci accomodiamo a conversare all’ombra delle robinie, in un giardino recintato con una composizione di ramazze alternate a gambe di manichini. Mi spiegano che Mutonia è l’unico insediamento stabile dei Mutoid, ma non per questo è la sede della Waste Company, che in realtà si compone di una galassia di gruppi e persone sparse in giro per il mondo, in Europa e persino in Australia, che operano per lo più separatamente ma sempre animate dallo spirito del gruppo originario, come a Londra per la cerimonia di chiusura delle Paralimpiadi.
Dopo anni di incertezze e di precarietà, raccontano, questo villaggio esiste ancora perché è ufficialmente diventato il Parco Artistico di Mutonia, un’area tutelata in cui devono conservare la consistenza e le attuali caratteristiche dell’insediamento, con le abitazioni e gli atelier che costituiscono un unicum con le opere d’arte, ben integrato nel contesto paesaggistico, come dichiararono a suo tempo la Soprintendenza per i beni artistici ed antropologici di Bologna e quella per i beni architettonici e paesaggistici di Ravenna. Il villaggio, mi dicono, è dotato dei servizi essenziali della sua rete fognaria e può ospitare al massimo trenta abitanti, tra artisti e familiari. Gli ultimi arrivati si sono stabiliti a Mutonia da un paio d’anni, altri vivono qui dai primi anni Novanta. Raccontano di come, per chi viene dall’arte di strada, questo sia per prima cosa un luogo sicuro, dove potersi conoscere, scambiare idee, lavorare, da soli o con gli altri, e condividere lo stesso modo di vivere, libero e spartano, contrario allo spreco e attento ai temi ambientali.

   La scultura in ferro che appare quando la Fenice cessa di ardere


Utilizzare artisticamente gli oggetti di scarto significa sottrarli al triste destino della discarica per dar loro una nuova vita e creare nuove emozioni. Non si occupano di riciclo, ma di riuso, ci tiene a sottolineare Nikki, che con la crasi “rifiutile” ben sintetizza lo spirito delle sue realizzazioni artistiche e dei laboratori didattici creativi, che tiene sia con i bambini che con persone di ogni età. Le brillano gli occhi a parlarne, a raccontare di come, nei laboratori, lei stimoli costantemente a lavorare insieme ad uno stesso progetto, ricercando con pazienza il pezzo giusto e imparando ad apprezzare la poetica bellezza e l’energia trasmessi dall’usura degli oggetti. Mi spiegano che i loro lavori sono richiesti sia da privati che da enti, amministrazioni comunali o altri soggetti pubblici. A seconda dei casi, vendono o affittano opere di scultura o di arredo e installazioni temporanee, oppure organizzano concerti musicali. In più, allestiscono anche eventi spettacolari come le parate di sculture cinetiche e i giochi di fuoco come la Fenice, la scultura ideata da Nikki, che viene ricoperta di materiale infiammabile e fatta ardere fino a scoprire il suo aspetto scultoreo. Parate e giochi di fuoco sono però sempre meno richiesti per motivi di sicurezza, ma di cui posso farmi un’idea dai filmati che girano in rete.
Ci spostiamo nello spiazzo di fronte a casa di Lu, riempito delle sue sculture zoomorfe, mantidi, ragni, scoiattoli e animali fantastici di ogni dimensione fatti con tubi, lamiere, molle e quant’altro. Lei confida che comincia ad avvertire la fatica del tempo e per questo lavora ormai quasi solo su commissione e cita qualche opera nata espressamente per eventi culturali in tutta Italia. Come “B-Lad”, realizzata nel 2006 con altri artisti per il Festival della Filosofia di Carpi e come la “Macchina del Tempo”, esposta alla Cavallerizza Reale di Torino per il Centenario dell’esposizione Internazionale del 1902, una gigantesca macchina celibe del peso di svariate tonnellate, che ora è collocata vicino al laboratorio di Lyle, che ha partecipato con lei al progetto.
Ci incamminiamo per vedere da vicino questa enorme composizione di ingranaggi e leve e raggiungere Lyle, dall’altra parte del campo. Lungo la strada sale il suono ruvido e distorto di una chitarra elettrica toccata con maestria. È Andy, mi dice Fulvio, Andy MacFarlane, musicista scozzese di livello professionale, che ha inciso e suonato da solista e con diverse formazioni, vive anche lui qui a Mutonia. Le note di Rollin’ and tumblin’ ci accompagnano da Lyle “Doghead”. Un’omone, apparentemente ruvido, che si accende di passione e di entusiasmo appena gli chiedo di mostrarmi i suoi lavori. Si definisce un “anarchitetto”, confermando lo spirito anarcoide della cultura punk da cui proviene. È di origine canadese, vissuto in Inghilterra e in Germania, è qui da metà anni ’90. Costruisce bestie meccaniche, un’arte pesante e complessa, che è uno dei pochi a praticare. Mi mostra subito Wrecks, il grosso cane animato dal motore boxer di una 2 CV che ha costruito nel ’95 con un budget di sole 50 mila lire. È stato il suo primo lavoro di questo genere. Ora non funziona più, ma si spostava sulle quattro zampe. Lyle lo guidava simulando di trattenerlo a stento col guinzaglio mentre avanzava aggressivo, si agitava e balzava inferocito scuotendo la testa.
Lì vicino, altre due bestie meccaniche ancora più grosse, che Lyle guida cavalcandole. Il toro LRRY-1, anche questo col motore della 2 CV, e il rinoceronte D1zzy, animato dal motore di una Golf, che muove il testone con gli occhi lampeggianti emettendo fiamme dalle narici e dal corno sulla punta del muso. Confessa sorridendo che le sue bestie sono ispirate all’orsetto meccanico di latta con cui giocava da bambino, poi spiega che realizza questi marchingegni senza prima disegnare un progetto. Piazza il motore sul banco, lo ripara e poi gli costruisce intorno le intelaiature e i meccanismi che servono ad animarlo. Mi chiede di voltarmi e indica a una specie di modulo lunare costruito partendo dalla cisterna di un autocarro, la sua prima abitazione, poi mi fa entrare nella sua casa, ovviamente costruita e arredata con estro utilizzando solo materiali di recupero; accogliente e rifinita con ammirevole cura è arredata con mobili e accessori che produce anche su ordinazione. Uscendo, vedo parcheggiate sotto casa la bici-sidecar elettrica, con cui dice che va abitualmente a fare la spesa, e una moto-sidecar con lanciafiamme da 7 metri di gittata.

Parti dell’installazione “La macchina del tempo”
D1zzy il rinoceronte meccanico

Un parco moto non comune, penso, ma è ora di andare, ci salutiamo tutti quanti con la promessa di rivederci presto. Sulla via di casa, ripensando a quello che ho appena visto e ricordando quale entusiasmo scatenarono tra il pubblico del Festival di Santarcangelo le macchine infernali dei primi Mutoid, cresce in me la convinzione che Mutonia poteva sorgere solamente qua. In Romagna, dove tutti hanno stretto tra le gambe “e mutor”, il motore, e chiunque traffica tra meccanica e lamiere è sempre il benvenuto.

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