L’architettura, strumento per far commuovere

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Charles Edouard Jeanneret-Gris (Le Corbusier) nasceva il 6 ottobre 1887 a La Chaux de Fonds, nel territorio svizzero del Giura, al numero 38 di Rue de la Serre, in un paese che aveva la vocazione per la tecnologia orologiaia, importata in Svizzera dai profughi ugonotti alla fine del XVI secolo, dapprima a Ginevra poi in tutta la Svizzera.

Nella vicina Neuchâtel, dove quel mondo di artigiani orologiai aveva la propria capitale, anche il padre di Le Corbusier aveva intrapreso l’arte degli orologi ed è facile presumere che Le Corbusier, nato e cresciuto in quel mondo, avesse assimilato il senso di perfezione e rigore di quell’arte, che poi avrebbe trasfuso nella propria architettura.

Le Corbusier aveva appena diciassette anni quando un certo Monsieur Fallet di La Chaux de Fonds, forse per intuito o forse per incoscienza, affidò al futuro architetto la costruzione della propria casa.

Era il 1905 e il giovane, in poco meno di due anni, portò a termine la realizzazione del suo primo progetto, con una quantità di dettagli che solo il mondo dell’arte orologiaia poteva avergli ispirato e che egli aveva tradotto in un linguaggio in cui, come lui stesso ebbe poi a dire “…l’architettura era lo strumento per far commuovere…”.

Quel primo progetto, “Casa Faillet” a La Chaux de Fonds, fu per lui l’inizio di una carriera inarrestabile che gli avrebbe fatto progettare la Casa Stotzer, la Casa Jacquement e la casa dei propri genitori Casa Janneret nel 1912.

Fu per lui un grande maestro l’architetto e scultore Charles L’Eplattenier, che riconoscendone la vocazione lo mise in contatto con i grandi personaggi dei più importanti studi di architettura europei: da Walter Gropius a Mies Van der Rohe, che nel 1919 avrebbero fondato a Weimar la Bauhaus, quella Scuola che divenne punto di riferimento fondamentale nel dibattito culturale del ‘900, fra industria e arte, tecnologia ed erudizione.

Le Corbusier dopo quelle prime esperienze e indirizzato da L’Eplattenier, visitò paesi come Italia, Francia, Germania, Austria, frequentando, come apprendista, gli studi di Peter Behrens e Auguste Perret.

Nel 1917, pur con la prospettiva di nuove esperienze a Vienna e Berlino, Le Corbusier decide di trasferirsi a Parigi per entrare nello studio di Aguste Perret, il grande architetto seguace di Violet Le Duc, che sarebbe divenuto poi padre del piano di ricostruzione post-bellica (Seconda guerra mondiale) del centro di Le Havre, oggi dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.

Lo studio Perret è il maggior studio europeo nella progettazione di edifici strutturati in cemento armato e l’esperienza al suo interno si rivelerà fondamentale per l’approfondimento delle idee innovative che caratterizzano la tensione progettuale di Le Corbusier.

Già nel 1910 Le Corbusier aveva pensato a costruzioni innovative, da lui denominate “Maisons Dom-Ino”, nelle quali una struttura portante in cemento armato avrebbe permesso di realizzare unità compositivamente libere e, secondo il principio del funzionalismo, conformi alle esigenze abitative dei futuri fruitori. L’economicità del manufatto così progettato ne avrebbe reso accessibile l’acquisto anche a classi economicamente deboli. L’abitazione viene concepita come una “macchina da abitare” (le case Citrohan del 1927) nella quale le esigenze dell’uomo orientano il processo costruttivo, economico e funzionale. Nel 1921 Le Corbusier e il cugino Pierre Janneret aprono un loro studio al numero 35 di Rue de Sevres a Parigi. Nello stesso periodo, assieme al pittore e scrittore d’arte Ame dèe Ozenfant e al critico d’arte Paul Dermée fonda la rivista “Avantgarde. L’Esprit Nouveau”, all’inizio fortemente contrastata dai critici per i suoi contenuti, ritenuti rivoluzionari.

Al Salone d’Autunno di Parigi nel 1922, presenta il progetto “per una città di tre milioni di abitanti”, che vede l’inserimento, nel piano urbanistico della città, di grattacieli da sessanta piani al centro della stessa e ben distanziati fra loro da aree verdi, destinati ad accogliere sedi istituzionali, centri amministrativi e di affari e alla base negozi eleganti, ristoranti e garages.

Intorno ad essi e immersi nel verde, edifici residenziali di sei piani “à redent”, disposti con arretramento rispetto al nastro della strada. All’esterno compare una fascia di “immeubles villas” a uso residenziale. Ogni complesso è un aggregato di 120 cellule abitative a due livelli, inserite in una struttura chiusa dotata di spazi e servizi in comune, come portierato, lavanderia, giardini e terrazzi.

Massima individualità viene data alle cellule. Questo grande disegno urbanistico-architettonico trova la sua origine, nel pensiero di Le Corbusier, a seguito del suo soggiorno in Italia attorno al 1907 e precisamente durante la sua visita alla Certosa di Ema al Galluzzo di Firenze. Qui egli rimane particolarmente affascinato dal rapporto uomo-spazio architettonico: fra i suoi quaderni dell’epoca ritroviamo infatti numerosi schizzi della Certosa.

Il prototipo della cellula abitativa viene poi proposto nel 1925 a Parigi all’interno del Padiglione dell’Esprit Nouveau (in seguito demolito e ricostruito a Bologna nel 1977).

Nello stesso 1923 presenta il suo libro “Vers une Architecture”. Il testo diverrà, per le teorie innovative in esso enunciate, un “manifesto” sull’architettura, incardinato su cinque punti: scheletro di pilotis; finestrature a nastro continuo; tetti-giardino; facciate libere e pulite; pianta libera con solai sui quali disporre le pareti a proprio piacimento.

La concezione della produzione seriale mutuata dai processi industriali e applicata all’edilizia abitativa costituisce il momento fondamentale di una nuova idea della architettura che si concretizza progettualmente nel 1933 con la “Ville Radieuse” e nel 1947 con le “Unité d’Habitation” di Marsiglia.

 

Il piano urbanistico di Chandigarh

 

Questa visione innovativa del processo architettonico- costruttivo gli permette di ottenere, assieme a Pierre Janneret, da Henry Frugès, importante costruttore del periodo, l’incarico per la realizzazione a Bordeaux-Pessac di un quartiere concepito secondo i criteri progettuali e costruttivi di standardizzazione e industrializzazione. Il quartiere viene realizzato nel volgere di un anno.

Nella “Ville Radieuse” il problema della viabilità viene risolto mediante la differenziazione dei percorsi: la pedonalizzazione trova percorsi nel verde, mentre vengono realizzati grandi assi viari su pilotis dedicati al traffico veicolare motorizzato e svincolati dalle zone edificate.

Gli spazi destinati a viabilità e aree verdi coprono circa il 10% della superficie totale dell’intervento progettuale, mentre alla parte edilizia viene destinato, con una altissima densità edificatoria che esaspera la soluzione ad angolo retto, il 90% restante.

Le aree della città, disposte secondo grandi maglie quadrate, vengono distinte a seconda della loro destinazione d’uso: a Nord, in prossimità delle infrastrutture, quali aeroporto, ferrovia, hotels e centri amministrativi, si colloca la zona per affari e centri speciali.

A Sud troviamo la zona industriale con relative pertinenze logistiche e, fra le due precedenti, protetta da un’ampia fascia di verde a cuscinetto, la zona residenziale.

Nel caso di Marsiglia gli edifici sono concepiti con l’autonomia di una città, con 336 unità abitative di taglio diverso. Le unità di abitazione interpretano il punto di convergenza di tutte le teorie e i concetti innovativi di Le Corbusier. I cinque punti cardine della nuova architettura, il modulor e la catena di montaggio applicati all’architettura diventeranno la base per il nuovo pensiero architettonico. I corridoi di separazione fra le abitazioni, longitudinali all’edificio, fungono da vie pedonali a cui si affacciano attività e negozi che intercalano le unità abitative.

Il monumento “La main ouverte” a Chandigarh, 1952

Il verde sottratto al paesaggio dalla costruzione viene trasferito sul tetto a terrazza dell’edificio stesso, ove si viene a creare un nuovo ambiente urbano con alberatura, aiuole, giuochi per bambini e una grande piscina affinché questo luogo sicuro possa divenire fruibile anche dai ragazzi in assenza dei genitori. Da questo momento in poi la fama delle sue teorie si diffonde, diventando queste punto di riferimento per il processo evolutivo dell’urbanistica, dell’architettura e del contenuto sociale di queste materie.

Le opere di Le Corbusier, ormai di fama mondiale, verranno considerate patrimonio dell’umanità. Dal 1950, con la celebratissima Chiesa di Notre Dame di Haut a Ronchamp, inizia un periodo di grande realizzazione dei suoi progetti.

A Ronchamp il tema importante della forma, intesa come necessità ed espressione di sintesi, ma anche come vita dell’architettura concreta, si accompagna a quello della luce, come componente essenziale della architettura stessa.

Il fattore luce, filtrando da vani e aperture diverse e posizionate su piani diversi, vivifica le suggestioni spaziali all’interno della chiesa, ne anima i silenzi senza distrarre i percorsi meditativi.

Nella realizzazione della chiesa l’architetto utilizza il sistema di proporzioni del modulor, da lui concepito nel 1948, partendo dagli studi leonardeschi sulla figura dell’uomo di Vitruvio. Nel 1951, quattro anni dopo l’indipendenza dal Regno Unito, il primo ministro dell’India il Pandit Nehru, pone mano al piano urbanistico della capitale della regione de Punjab: Chandigarh.

Della sua stesura e realizzazione viene affidato l’incarico a Le Corbusier, che in questa occasione vede realizzarsi la possibilità di dare alla futura città, che sorgerà su di un territorio vergine da significative preesistenze storico-architettoniche e di singolare suggestione paesaggistica, una fisionomia assolutamente propria.

Chandigarh, la città d’argento, rappresenta la massima espressione dell’opera di Le Corbusier, che può finalmente vedere realizzate le proprie istanze sulla città ideale.

Tuttavia, l’architetto resiste alla tentazione della loro applicazione assoluta, forse nel timore di perdere l’ambizioso incarico; pertanto, Le Corbusier preferisce proporre uno schema urbanistico che tenga conto anche dei dettami della Carta di Atene, frutto del Congresso Internazionale di Architettura del 1933. Tale posizione non è però da intendersi come rinunciataria, ma come sensibile adesione ai problemi di una società così lontana e diversa da quella occidentale. Lascerà tuttavia fluire in libertà la sua grande creatività negli edifici del Campidoglio.

Anche nella realizzazione di Chandigarh egli sarà accompagnato dal cugino Pierre Janneret. Il confronto con l’altra capitale sorta su terreno vergine negli anni ’50 del Novecento, Brasilia, è spontaneo. Subito appare differente la posizione dell’architetto che, nel caso di Chandigarh, rifiuta l’ostentazione a favore della misura umana che è sempre posta al centro della proposta architettonica. La stesura dell’impianto della città è stata spesso interpretata come una grande metafora del corpo umano dove il capo è costituito dalla concentrazione degli edifici dedicati alla cosa pubblica; il tronco è costituito da una grande scacchiera divisa in settori, ognuno dei quali, parzialmente indipendente, è a sua volta suddiviso in zone corrispondenti alle diverse classi sociali, secondo la tradizione indiana.

Grandi parchi verdi costituiscono i polmoni d’aria della città; le arterie destinate al traffico veicolare e i percorsi pedonali costituiscono il sistema circolatorio.

Al centro della città, sullo sfondo dell’Himalaya si trova la grande mano, sollevata da terra di ben ventisette metri e protesa verso l’alto, “aperta per ricevere i grandi doni del creato, aperta per donare”. È la stessa mano alzata dell’uomo del modulor e anche in parte nell’edificazione della città viene utilizzata questa scala di proporzioni commensurate alla figura umana. Non dimentichiamo che Albert Einstein definì il modulor come “un sistema di proporzioni che rende difficile il brutto e facile il bello”.

Dall’infinitamente grande di Chandigarh (114 kmq) all’infinitamente piccolo di “Le cabanon” di Roquebrune (3.66 x 3.66 x h 2.26), il principio fondante resta la misura d’uomo del modulo. In questo piccolo edificio a Cap Martin, Le Corbusier risolve per sé e la moglie Yvonne, tutte le esigenze della vita di vacanza fra terra e mare. Questo piccolo chalet, di cui fa dono alla moglie nel 1952, è il luogo d’incontro con sé stesso e con la propria compagna, dopo i grandi viaggi di lavoro e le immense distanze percorse, dove vive a contatto con la natura, trovando in essa e nella “…solitudine del mare…” ispirazione per la sua creatività di pittore.

Per la costruzione del piccolo chalet in legno di pino e quercia, arredato con arredi prefabbricati fissati alle pareti, si fa aiutare da Thomas Rebutato, ex-idraulico e titolare della piccola trattoria Etoile de Mer, dove Le Corbusier e Yvonne sono soliti cenare. Qui viene forse esaudito il suo ultimo desiderio. Si dice che alle persone a lui più vicine avesse detto: “…come sarebbe bello morire nuotando verso il sole…”.

Nell’agosto 1965, contrariamente al parere del medico che gli consiglia di non stancare il proprio cuore, si concede lunghe nuotate nel mare antistante al le Cabanon e da una di queste non ritornerà. Il suo corpo viene ritrovato senza vita, stroncato da un attacco cardiaco.

Il suo funerale viene celebrato a Parigi in forma solenne, ma le sue spoglie riposano a Roquebrune, nella tomba da lui stesso disegnata per sé e per Yvonne.

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