L’architettura e la città nel cinema
Ho studiato su testi di storia dell’architettura in cui il cinema compariva a malapena per le ambientazioni del film Metropolis di Fritz Lang, ben poca cosa rispetto al legame che unisce il cinema all’architettura e alla città, tema che da diversi anni è al centro dell’attività di ricerca di Marco Bertozzi, architetto, filmmaker, storico del cinema e curatore di mostre d’arte cinematografica, professore ordinario di Cinema, Fotografia e Televisione all’Università IUAV di Venezia, che ho il piacere di incontrare e al quale pongo qualche domanda.
Che cosa caratterizza il rapporto del cinema con l’architettura e la città?
Sin dalle origini, l’architettura e la città sono stati essenziali nella cinematografia. Soprattutto la città, in quanto luogo del dinamismo, consentiva ai fratelli Lumiere di riprendere tanti diversi soggetti in movimento, capaci di richiamare in sala di proiezione un folto pubblico di curiosi. Il loro catalogo di circa 1.420 “vedute animate” di uno, due, tre minuti, ha oggi un incredibile valore documentario su città come Parigi, Londra e tanti luoghi esotici tra Otto e Novecento. Dopo l’era pionieristica, direi che esiste un livello molto basico di intendere il rapporto tra cinema e architettura, che consiste nella mera riconoscibilità iconografica, all’interno di un film, di un luogo o di un edificio che possiede un valore architettonico riconosciuto e preesistente: appare Notre Dame, appare la Sagrada Famiglia, appare Venezia, ecco allora l’architettura nel cinema. Questa presenza però, anche se può risultare funzionale alla narrazione filmica, non costituisce la specificità del cinema, che va invece ricercata nella sua capacità di reinventare lo spazio attraverso il linguaggio che gli appartiene. Mi riferisco alla creazione dello “spazio filmico”, che non corrisponde esattamente e solamente all’ambientazione. Noi possiamo vedere un luogo apparentemente unitario, ma in realtà, come affermava Eric Romer, è uno luogo costruito dal regista nella nostra mente di spettatore. La scelta delle inquadrature, i movimenti di macchina, il montaggio ci portano in un’architettura o in uno spazio urbano che non esistono nella realtà, ma che sono immaginari e appartengono solo a quel testo filmico. Uno “spazio filmico” che può essere il frutto di un collage di pezzi scenografici diversissimi e distanti tra loro, oppure che può anche conservare l’unità di spazio e tempo, come ha magistralmente dimostrato Sokurov in L’arca russa, un intero film di un’ora e mezza con gli attori ripresi in un unico piano sequenza che percorre l’intero museo dell’Hermitage.
Quindi non ha importanza distinguere tra spazio di pura finzione e spazio reale, perché nel cinema lo spazio viene comunque piegato alle esigenze narrative e stilistiche del regista.
Certo. Noi spettatori siamo indotti a crearci uno spazio mentale che differisce dal vero spazio scenografico. Prendiamo i film di Hitchcock, ad esempio la Finestra sul cortile: lo spazio che vediamo ci appare estremamente vero, mentre è totalmente di finzione. Questa è la specificità dello spazio nel linguaggio cinematografico.
Anche se in origine non era nelle intenzioni dell’autore, un vecchio film visto oggi testimonia la trasformazione subita nel tempo dai luoghi in cui fu girato; questo elemento avvicina tra loro in qualche misura cinema di finzione e cinema documentario?
Questo è un argomento molto interessante su cui riflettere. Prendiamo una città. Nel caso di un documentario c’è stata la volontà di darne una rappresentazione nel determinato momento storico in cui veniva girato e guardando quella pellicola dopo decenni ritroviamo una fonte di storia urbana incredibilmente ricca, come ho già detto a proposito delle “vedute” dei Lumiere. La stessa sensazione che ebbi circa trent’anni fa, quando feci il ritrovamento di Rimini l’Ostenda d’Italia, un documento che rese possibile vedere com’era la città alla fine della Bella Epoque, ancora integra e così diversa da oggi. Nel caso invece del cinema di finzione, l’aspetto rilevante è che di quella città l’autore ci racconta inevitabilmente non tanto la realtà storica, ma piuttosto l’immaginario urbano del periodo storico in cui viveva. Questo determina un ulteriore piano di lettura che risulta ancor più evidente nei film di fantascienza, ambientati in un futuro immaginario, o in quelli storici, ambientati nel passato, che non ci mostrano il vero futuro né il vero passato, ma l’idea che si aveva del futuro o del passato quando i film venivano girati. Il cinema è un testo culturale, che porta in sé i valori e la cultura visuale del periodo a cui appartiene. In tal senso possiamo leggere le cosiddette “sinfonie urbane”. Film come L’uomo con la macchina da presa, oppure Berlino, sinfonia di una grande città, girati negli anni ’20, nel pieno fervore delle avanguardie storiche, sono pellicole che più che rappresentare un’architettura o una città dal punto di vista realistico, avevano l’intento di sperimentare, attraverso la potenza del montaggio, le potenzialità narrative ed espressive insite nel mezzo cinematografico.
Quando gli architetti compaiono in un film sono spesso tratteggiati in maniera stereotipata oppure, come nel film di King Vidor del 1949, forse il primo ad avere un protagonista architetto, manifestano eccessi quasi patologici di autostima. Che cosa puoi dirci in proposito?
In effetti, più che nel cinema tradizionalmente inteso, penso che le cose più interessanti vadano ricercate altrove. Molto più stimolante è l’uso dello strumento cinematografico fatto dagli stessi architetti e urbanisti per raccontare del loro lavoro. Come i tre piccoli film girati nel 1954 per la X Triennale di Milano da Giancarlo De Carlo, Carlo Doglio e Ludovico Quaroni, tra cui il film di finzione, ironico e a tratti buffo, incentrato sull’esasperazione che coglie un urbanista funzionalista mentre tenta invano di progettare la città perfetta, attraverso formule, numeri e statistiche.
Altrettanto interessante, ma in ambito documentario, è il film con il figlio di Louis Kahn che gira il mondo alla ricerca delle architetture realizzate dal padre. Si potrebbe poi allargare lo sguardo al vastissimo repertorio, del tutto trascurato dalla storiografia ufficiale, che comprende il cinema industriale, come i tantissimi filmati prodotti da Fiat, Eni e altre grandi aziende conservati a Ivrea, il cinema sperimentale e persino gli home movies e i filmati scientifici.
Restringendo il campo ai soli registi italiani, in quali di essi ritrovi un rapporto particolarmente significativo con l’architettura e gli spazi urbani?
Partirei sicuramente da Michelangelo Antonioni, capace di comunicare i sentimenti dei protagonisti, anche quando sono immobili e sembrano non fare niente, ponendoli all’interno o sullo sfondo di architetture inquadrate in modo fantastico. Deserto rosso, La notte, L’eclisse, ogni suo film ha un rapporto patemico molto forte con le architetture: gli stabilimenti industriali, Milano, la Borsa di Roma.
Poi Pier Paolo Pasolini, che sceglie di girare Il Vangelo secondo Matteo tra i sassi di Matera, e che dopo aver girato a Sana’a Il fiore delle mille e una notte scrive una lettera accorata all’Unesco, per sollecitare il giovane governo yemenita a prendere coscienza dell’inestimabile valore architettonico, storico e culturale della sua capitale, oggi patrimonio mondiale dell’umanità. Lo stesso Pasolini che nel 1974 gira La forma della città, il documentario in cui denuncia il degrado causato dall’incuria e dalla speculazione edilizia alla città di Orte e al suo paesaggio. Infine, Federico Fellini …
Scusa se ti interrompo proprio su Fellini, ma su di lui, essendo noi entrambi riminesi, mi ero già riproposto di chiederti del suo passaggio dalle ambientazioni in luoghi reali dei primi film a quelle sempre più spesso costruite negli studi di Cinecittà.
Nell’orizzonte post neorealista degli anni ’50, Fellini privilegia gli spazi aperti e le ambientazioni urbane. Il passaggio alle riprese in studio avviene con La dolce vita, in larga parte ambientata in via Veneto, dove Fellini inizia le riprese, ma, insieme al produttore del film, si rende presto conto che lavorare solo di notte bloccando una parte di Roma comporta grosse difficoltà, tempi di lavoro dilatati e costi elevati. Molto meglio ricostruire via Veneto a Cinecittà. Nasce così una via Veneto che apparirà più vera del vero, al punto che Fellini racconterà in un’intervista che quando tornava nella vera via Veneto si indispettiva perché lì non poteva esercitare quel potere coercitivo che aveva in quella ricostruita ad arte.
Da allora nei suoi film le ricostruzioni scenografiche in studio saranno la norma. Pensa solo alle scene di Roma ambientate nel Grande Raccordo Anulare, girate in quasi un chilometro di strada a quattro corsie fatto ricostruire a Cinecittà dalla stessa impresa che aveva costruito il vero raccordo. Fellini raggiunge così una straordinaria capacità di creare mondi antropici nel ventre placentare del Teatro 5. Come le ambientazioni per La voce della luna, ricostruite dopo aver girato in lungo e in largo i paesini tra Parma e Reggio. Microcosmi urbani così credibili che gli abitanti di Reggiolo, dove è ambientato il racconto, ne riconoscono l’identità. Esattamente come noi riminesi ci ritroviamo nella Rimini di Amarcord completamente ricostruita in studio, sintesi fantastica della vera città, composta dagli scenografi sulla base di un ampio servizio fotografico commissionato dallo stesso Fellini.
Una Rimini che ci appare verosimile persino negli esterni girati sul Tirreno o nel viale d’ingresso di Cinecittà, come per la scena dell’entrata trionfale del Duce a Rimini. Uno spazio filmico che grazie alle capacità del regista diventa un unicum assolutamente potente, che fa sì che Amarcord, come già prima I vitelloni, girato tra Viterbo e Ostia, siano film pienamente riminesi senza che vi sia stata girata alcuna scena. Va poi anche detto che Fellini non abbandona del tutto le ambientazioni reali, come prova la sua forte attrazione dichiarata per il quartiere EUR, dove ambienta diversi momenti de La dolce vita e torna pochi anni dopo per Le tentazioni del dottor Antonio (episodio de Boccaccio 70) e si fa riprendere, spiegando la predilezione per quel quartiere, in Fellini e… l’EUR (1973, con la regia di Luciano Emmer).
Ribaltiamo ora la questione e parliamo del cinema dentro l’architettura. Di recente a Rimini è stato realizzato il Fellini Museum, che si articola all’interno di edifici fortemente connotati sotto il profilo storico e architettonico; io che l’ho visitato, confermo che offre un’esperienza affascinante e suggestiva quanto un film di Fellini, tu che hai contribuito alla sua ideazione vuoi raccontarci questa esperienza?
L’Italia possiede numerosi grandi contenitori, edifici storici, fabbricati di archeologia industriale e quant’altro, spesso destinati a musei o spazi espositivi, come anche il Museo del cinema di Torino all’interno della Mole Antonelliana. Nel nostro caso si trattava di realizzare un museo diffuso: all’interno del quattrocentesco Castel Sismondo e del settecentesco Palazzo Valloni e lungo il breve tragitto che li collega. Un’operazione realizzata nella consapevolezza dell’enorme valore dei siti architettonici e nel pieno rispetto dei vincoli culturali e archeologici. Nella sede di Castel Sismondo, ad esempio, il Museo prevede installazioni leggere e autoportanti, progettate per non intaccare superfici murarie e pavimentazioni, e consentire al visitatore di ammirare l’architettura in tutta la sua bellezza, come nelle parti archeologiche, che grazie a una attenta illuminazione si offrono ora sia a una visione rinnovata sia a evocazioni felliniane, nel ricordo dei fantastici tour sotterranei di film come Roma o Block notes di un regista. Evocazioni che si rincorrono anche nei tre piani di Palazzo Valloni, dove a piano terra ha sede il leggendario cinema Fulgor immortalato in Amarcord. Quella che emerge dal Fellini Museum è una concezione museologica capace di valicare la semplice esposizione di oggetti materiali - dai costumi di scena al Libro dei sogni, dagli appunti musicali di Nino Rota alle sceneggiature originali, dai materiali non fiction a estratti dei film di Fellini… - per associarvi momenti interpretativi, “macchine a immaginario” in un percorso espositivo capace di sollecitare evocazioni e nuove costruzioni di senso.
Ci sarebbe ancora tanto da approfondire in tua compagnia su un tema così vasto e sfaccettato, ma è il momento di salutarci e di ringraziarti di questa piacevole conversazione, personalmente e anche a nome dei colleghi architetti e ingegneri che la leggeranno. ■
Nota biografica
Marco Bertozzi fin dagli studi di Architettura all’Università di Firenze si interessa ai rapporti fra cinema, architettura e città, che poi approfondisce con il dottorato al DAMS di Bologna e il post-dottorato all’Università Roma Tre. Dal 2008 insegna materie cinematografiche all’Università IUAV di Venezia, dove ha fondato il Laboratorio di cinema documentario ed è stato responsabile scientifico dell’ambito di ricerca in Arti visive, Performative e Moda. Ha realizzato diversi documentari premiati in festival nazionali e internazionali e, con altri autori, ha contribuito alla rinascita del documentario italiano con un forte impegno teorico, didattico (al Centro Sperimentale di Cinematografia, al DAMS di Roma Tre, al CISA di Locarno, all’Università Paris 8 e all’Università del Québec) e curatoriale (con Villa Medici - Accademia di Francia, l’Associazione Italiana Documentaristi, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, la Fondazione Federico Fellini, la Cinémathèque québécoise, il Mambo di Bologna, il Museo M9 di Mestre, … ). Conduce per RAI Storia la serie televisiva Corto reale. Gli anni del documentario italiano. Ha fatto parte dell’equipe che ha progettato il Fellini Museum inaugurato a Rimini nel 2021, e nello stesso anno ha pubblicato il libro L’Italia di Fellini. Immagini, paesaggi, forme di vita. Nel 2022 ha ricevuto dall’Accademia dei Lincei il Premio dal Ministro della Cultura per la critica d’arte.
In copertina ritratto di Marco Bertozzi. Fotografia di Luca Pilot - Università IUAV di Venezia
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