Archeologia industriale, un colorato grido di dolore

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Nella prima periferia di Ragusa, in una campagna lambita da qualche brano di città, limitrofa alla strada che dritta digrada verso il mare, tra ragnatele di muri a secco che delimitano le masserie e le “chiuse”, nell’altopiano di contrada Tabuna, si trova il sito industriale Ancione distribuito in un’area di 150.000 metri quadrati.
La fabbrica aveva tre grandi linee di produzione: le mattonelle di asfalto; l’asfalto stradale evoluto fino alla produzione di conglomerati bituminosi; il mastice, cioè l’antenato delle guaine impermeabilizzanti. Perché nacque qui questo polo industriale?
L’azienda Ancione per l’estrazione della materia prima contava su una cava a cielo aperto e su una miniera scavata sotto l’altopiano dove sorge la fabbrica. Da qui si estraeva la roccia asfaltica, con un contenuto di bitume variabile da cui derivava la diversa colorazione e il pregio del materiale.
I bitumi naturali sono abbastanza diffusi nel mondo. Costituiscono in qualche caso il materiale impregnante di molte rocce, tipo arenarie e calcari, oppure si trovano sotto forma di vene nel sottosuolo o come affioramenti superficiali.
Questi giacimenti sono tra i maggiori d’Europa e nel territorio ragusano la pietra calcarea impregnata è denominata “pietra pece”.
Questa roccia bituminosa, opportunamente lavorata, è stata utilizzata per edificare, decorare e arredare il grande patrimonio storico- culturale e architettonico del centro storico e dei diciotto monumenti Unesco del tardo barocco ragusano.
La pietra pece si estrae ancor oggi e, quando è riscaldata, oltre a emanare un profumo particolare, diventa malleabile, pronta a tornare alla forma indotta quando la temperatura si abbassa. La variazione cromatica che la caratterizza cambia dal grigio al marrone scuro e la presenza di fossili o di venature la valorizza maggiormente.
 

Agglomerato industriale A. Ancione. Stabilimento Ragusa
 
Gli elementi architettonici o decorativi realizzati con la pietra pece si riscontrano, in epoca moderna, in manufatti risalenti al 1500 (la fonte battesimale conservata nella Chiesa di San Tommaso a Ibla è datata 1545), tuttavia sono stati ritrovati anche antichi sarcofaghi, in dialetto locale detti “tabuti” (notare l’assonanza con il nome di contrada Tabuna), realizzati con lo stesso tipo di materiale.
 

Agglomerato industriale A. Ancione. Stabilimento Ragusa
 
Dalla ricostruzione post terremoto del 1693 non c’è edificio a Ragusa Ibla, nel centro storico di Modica, a Scicli e nell’intera provincia, che non abbia le fondamenta, le decorazioni in prospetto, i gradini delle scale interne o esterne, le piastrelle dei pavimenti, le basole dei balconi, o anche le condotte d’acqua, realizzate con pietra pece.
Agglomerato industriale A. Ancione. Stabilimento Ragusa

All’evoluzione dell’uso del materiale con l’utilizzo anche in ambito stradale si pervenne in vari periodi.
In un primo tempo, a partire dal 1838, l’estrazione e la commercializzazione dell’asfalto naturale, fu concessa a tre mecenati svizzeri, e successivamente a varie compagnie impresarie europee di francesi, inglesi e tedeschi.
Varie fonti testimoniano che tra fine ‘800 e l’inizio del ‘900 l’esportazione di asfalto naturale da queste miniere era di decine di migliaia di tonnellate.
Il materiale grezzo, ridotto a piccole pezzature, era trasportato con carretti trainati da muli fino al porticciolo di Mazzarelli, l’odierna Marina di Ragusa, per essere imbarcato con destinazione al vicino porto di Pozzallo, e successivamente trasbordato nei piroscafi con rotta verso l’Inghilterra, la Germania e la Francia.
Si stima che nel 1900 a Berlino vi fossero oltre un milione di metri quadrati di strade pavimentate in asfalto compresso, ottenuto in gran parte dalla roccia esportata da Ragusa. Una citazione documentata rammenta che la prima strada al mondo con asfalto compresso da un rullo fu la Rue Bergère di Parigi, utilizzando pietre e bitume provenienti dalle miniere di Ragusa della Compagnie Nationale pour l’Exploitation des Asphalte Naturelle. Nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale, le attività minerarie in possesso dei tedeschi furono requisite per essere affidate in concessione ad un’azienda italiana l’ABCD - Società Italiana Asfalti Bitumi Combustibili liquidi &, Derivati, costituita con capitali in parte pubblici, che poté disporre di circa ottanta ettari di terreno, rilevando anche gran parte delle ditte minori. In breve tempo l’ABCD, grazie allo sviluppo del settore dei catrami, diviene un polo industriale su cui gravita gran parte dell’economia ragusana, con oltre un migliaio di dipendenti. Tra le varie attività si può citare anche la produzione di un combustibile per autotrazione ottenuto per estrazione dalla roccia asfaltica frantumata grazie a un impianto all’avanguardia, con un complesso e costoso ciclo di lavoro. Nei primi anni ’50, l’ABCD, modificò il suo interesse produttivo e continuò anco ra per alcuni anni l’attività industriale, realizzando cementi ed inerti per l’edilizia ricavati da calcare de-bitumizzato.
Nel 1952 all’attività di estrazione e lavorazione della roccia si affianca la Ditta Ancione che, nata a Palermo, apre i suoi stabilimenti a Ragusa e vi trasferisce la produzione di mattonelle di asfalto per l’arredo urbano, di cui vantava essere unica produttrice.
In breve tempo si articolò il sito industriale con le tre macro aree produttive: l’area “nero” per la lavorazione della polvere di asfalto; l’area “calce” e l’area “conglomerati bituminosi”.
Per la realizzazione delle mattonelle d’asfalto, dopo l’estrazione della roccia asfaltica, la successiva frantumazione e riduzione, si otteneva una sabbia di grossa pezzatura, successivamente essiccata. In seguito, dopo aver condotto le indagini sul contenuto di idrocarburi naturali, la sabbia veniva trattata o con bitume artificiale, se ne era povera, o con l’addizione di calcarenite bianca, se ne risultava ricca.
Il prodotto artificiale, stipato in vasche interrate e in silos verticali, era mantenuto a temperature elevate per conservarlo allo stato semiliquido. Successivamente, dopo le altre fasi di arricchimento, era rimacinata per disaggregare eventuali conglomerati formatisi in fase di raffreddamento e trasferita per una nuova essiccazione, quindi stipata in cumuli e raccolta in tramogge che alimentavano le presse per ottenere il prodotto finale.
Al reparto presse si trovavano quelle rotative Dorstener e quelle verticali Matrix. La Dorstener era una pressa di tipo rotativo in cui il materiale asfaltico (arricchito, macinato, essiccato) ricadeva negli stampi.
Le mattonelle erano prodotte con spessori variabili da 2 a 5 cm e acquisivano le naturali proprietà della roccia asfaltica: elastoplastiche, afoniche, antisdrucciole, antipolvere, oltre ad essere durature ed esteticamente gradevoli.
 

Agglomerato industriale A. Ancione. Stabilimento Ragusa
 
Agglomerato industriale A. Ancione. Stabilimento Ragusa

Le mattonelle di asfalto sono state utilizzate per la pavimentazione di strade e marciapiedi, di cortili, di aree interne alle costruzioni. Nel 1991, il periodo di maggiore espansione, la Ditta Ancione produsse e vendette oltre 1 milione e 200 mila mq di mattonelle di asfalto!
Nel 2013 la Ditta Ancione chiude e finisce un’epoca di sviluppo economico incentrato sulla pietra pece. Un periodo lungo oltre 150 anni in cui furono coinvolti migliaia di lavoratori e di famiglie, in cui si trascinò l’economia dell’intera provincia ragusana con la creazione di varie attività indotte che durarono alcuni decenni. Si pensi, ad esempio, alle centinaia di carretti a trazione animale che, in carovana trasportavano le pietre asfaltiche all’imbarco per l’esportazione.
Il sito industriale resta quindi privo di utilità: i silos, i capannoni per lo stoccaggio, le presse, tutto resta immobile e silenzioso in balia del tempo che ne corrode le strutture e conduce all’oblio un luogo di intensa attività e lavoro.
Uno spazio in cui la memoria si mescola con le emozioni umane, con la laboriosità, con la fatica, con la capacità di utilizzare e rielaborare le risorse naturali.
Dopo aver spento definitivamente le macchine, lo scorso anno a fine del 2020, la fabbrica ha riaperto i cancelli sotto un’altra veste: una manifestazione di murales, la “ Bitume – Industrial Platform of Arts”. Un progetto che ha ridato breve ed effimera vita a questo complesso industriale, collegandolo all’arte pubblica.
Sotto la guida del direttore artistico Vincenzo Cascone, ideatore di festival di arte muraria, e il coinvolgimento dell’ultimo erede della famiglia Ancione, Manfredi, la manifestazione ha concesso a tutti la possibilità di vivere un racconto di storia che spazia dall’arte alla geologia, all’imprenditorialità, all’ingegneria, all’architettura, fino all’archeologia industriale.
Sono stati oltre 25 gli artisti provenienti da tutto il mondo, tra gli esponenti più importanti del muralismo contemporaneo, che hanno lasciato un loro segno in questo luogo affascinante, quasi sacralizzandolo. Tra gli altri, l’australiano Guido van Helten, l’italiano Luca Barcellona, il polacco M-City, lo spagnolo Sebas Velasco, i greci Simek e Dimitris Taxis, il moscovita Alexey Luka, l’italiana Marti na Merlini, Moneyless eNever 2501, l’argentino Francisco Bosoletti, il madrileno Ampparito, i tedeschi Case Maclaime SatOne, il siciliano Licama, il fotografo Alex Fakso, per giorni si sono cimentati su un tema di apprezzabile attualità.
Non si è trattato solo di un festival di arte muraria ma l’esperienza visiva si è intrecciata in modo avvolgente con la carica di vita, di umanità e di passione, di cui il luogo è denso. Un incastro perfetto, condensato e sintetizzato nella scelta compiuta da Van Helten di raffigurare su un silos il volto del falegname ragusano Meno Leffa, colui che ha passato gran parte della sua vita lavorando per la azienda Ancione, attribuendogli così il ruolo di sorvegliante silenzioso, simbolo e custode della memoria del luogo.
Dobbiamo definire questi murales come se fossero solo catalizzatori percettivi che sfocano tutto il resto? Dobbiamo pensare che questi flash grafici incuneati tra pieghe di macchinari e capannoni cadenti possano attirare l’attenzione solo su di sé mentre intorno resta la tristezza e il degrado? Da architetti e ingegneri dobbiamo respingere l’arte urbana e contemporanea in quanto forma minore di un’artistica azione egocentrica, distante dall’interesse pubblico? Forse tutto coesiste, ma, per contro, è molto più stimolante accogliere positivamente la sensibilità trasmessa da questi messaggi visivi, la cui forza trascina la società a riflettere sul passato per trovare risposte sul futuro riuso di questi luoghi, dove si condensano storia e memoria delle comunità. L’accattivante lettura del degrado che avvolge questa archeologia industriale può essere una delle possibili risposte a luoghi simili, abbandonati e sparsi in tutta Italia.
Non si tratta però di esperimenti di riqualificazione, quanto, invece, di colorate grida di dolore per ciò che perdiamo, più per impotenza che per inconsapevole rimozione.
L’importanza storico-culturale e ambientale del sito ragusano ha determinato la Regione Siciliana ad istituire il Museo regionale naturale delle miniere di asfalto di Castelluccio e della Tabuna con la Legge Regionale n. 17 del 15 maggio 1991, senza risorse economiche per ottenere esiti tangibili. Adesso occorre un progetto di tutela, recupero, conservazione e fruizione delle strutture minerarie e di questo sito industriale prima che il tempo e l’incuria dell’uomo ne cancelli la memoria.

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