Materiali autarchici, conservare l’innovazione

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VI Triennale di Milano, 1936. Sezione
dedicata ai materiali strutturali
(Archivio Triennale Milano)

Ai nostri giorni la consapevolezza della necessità di salvaguardare il pianeta in cui viviamo ci spinge a ricercare nuovi materiali, nuove fonti energetiche e nuove modalità di produzione e di consumo, che ci permettano di prelevare una minore quantità di risorse ambientali e di ridurre la produzione e la dispersione di rifiuti. Ogni giorno veniamo a conoscenza dei risultati conseguiti da startup e importanti laboratori di ricerca che fanno capo a università o grandi industrie impegnati in questa direzione. L’economia circolare, fondata sulla rigenerazione, il riuso, il riciclo, non è soltanto un’espressione linguistica, ma una tendenza in continua espansione.

Quasi cent’anni fa, qualcosa di simile interessò l’Italia e il popolo italiano, ma sotto ben altre spinte. La scarsità oggettiva di materie prime e di fonti energetiche che aveva fino a quel momento condizionato lo sviluppo industriale del nostro Paese e le spinte nazionalistiche di quegli anni, condussero il nuovo regime al potere a voler dimostrare la capacità dell’Italia di poter far da sé in ogni settore produttivo, dall’agroalimentare al manifatturiero. A partire dal 1926, il regime fascista inizia ad orientare l’economia italiana all’indipendenza dai mercati esteri per soddisfare il fabbisogno interno e avvia le cosiddette politiche autarchiche. La ricerca di un’autosufficienza produttiva ed economica sarà poi rafforzata dal 1935, per via delle sanzioni inflitte all’Italia in seguito all’invasione dell’Etiopia, che ridussero ulteriormente la possibilità di approvvigionarsi dai mercati esteri ed esportare beni.

Nascono così in quegli anni anche molti nuovi materiali che vengono impiegati nelle costruzioni e nell’arredamento durante il “Ventennio”. Materiali che talvolta possiedono requisiti tecnologici realmente significativi, mentre in altri casi sono semplici succedanei materiali troppo costosi o non disponibili, la cui stessa esistenza è oggi ignorata da molti architetti ed ingegneri che intervengono sul patrimonio edilizio edificato con il loro impiego. Se, infatti, è vero che chi si occupa di restauro e conservazione del patrimonio edilizio storico, comprese le imprese qualificate e le maestranze specializzate, ha confidenza con quantità infinite di qualità di legnami, pietre, laterizi, calci e altri materiali da costruzione tipici di epoche anche remote o provenienti da luoghi lontani, è altrettanto vero che molti dei materiali autarchici impiegati nel periodo tra le due guerre sono facilmente confusi con altri di uso corrente e, per questo, rimossi e sostituiti senza rimpianto anziché trattati secondo opportuni criteri di conservazione.

Guida autarchica del costruttore edile.
Catalogo della I Mostra nazionale di
materiali autarchici per l’edilizia, Roma 1940
(Edizioni Mercurio)

Assistiamo però negli ultimi anni a un’inversione di tendenza. Gran parte del patrimonio risalente al periodo tra le due guerre mondiali, edifici, complessi ed interi quartieri, dopo essere stato a lungo trascurato è sempre più spesso oggetto di interventi conservativi e di restauro che ne prendono in considerazione non solo le valenze formali, ma anche gli aspetti tecnologici.

I temi legati a questi materiali e al patrimonio edilizio in cui vennero impiegati, sono accuratamente esplorati da Sara Di Resta (IUAV di Venezia) Giulia Favaretto e Marco Pretelli (Dipartimento di Architettura dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna) esperti di restauro e di conservazione del patrimonio edilizio del XX secolo, autori di “Materiali autarchici. Conservare l’innovazione”, recentemente pubblicato da Il Poligrafo (pag. 352, € 30,00).

Il testo propone un’approfondita analisi storica ed economica del periodo, che descrive come e per quali ragioni si giunse in Italia alle politiche autarchiche, i protagonisti di questa scelta e le conseguenze che ne derivarono, illustra il rapporto che si ebbe tra la ricerca scientifica (risale al 1923 l’istituzione del CNR) e le sue applicazioni in campo industriale in particolare nel settore della chimica nell’elaborazione dei nuovi materiali (si pensi anche solo al ruolo di un’azienda come la Montecatini). In realtà, come spiega il professor Francesco Chiapparino nell’introduzione, l’impatto economico delle sanzioni e della risposta autarchica furono assai più modesti di quanto narrato dalla propaganda di regime, ma è innegabile che molti furono i nuovi materiali ideati e prodotti in quegli anni. Ne troviamo nel libro oltre 160, descritti e catalogati in schede. Suddivisi per categoria di appartenenza, troviamo i materiali metallici, i materiali vetrosi e i derivati del legno, le fibre vegetali, minerali e di origine animale, i derivati del cemento e gli intonaci, i materiali ceramici, i polimerici e i bituminosi, le pitture, le vernici e gli smalti.

Per ogni materiale sono descritti composizione e caratteristiche, aziende produttrici, applicazione e problemi di conservazione, il tutto corredato da un ricco repertorio di immagini tratte dalle campagne pubblicitarie e dalla propaganda di regime. Prodotti in parte realmente innovativi e dotati di buoni requisiti prestazionali, assai diffusi allora e in certi casi ancora oggi presenti sul mercato, e prodotti presto dimenticati perché semplici succedanei. Tra i tanti: Avional, Bakelite, Cellofan, Desagnat, Espolarite, Fontanit, Gattino, Koroxite, Italit, Jurasite, Linoleum, Muralina, Nonplusultra, Opalina, Populit, Rhodoid, Similoro, Tekko, Vitrex, Xantal, Ziral. Marchi e prodotti dalle denominazioni che suonano talvolta didascaliche tal atra ermetiche, immaginifiche o roboanti, dal fascino esotico o di sapore domestico, sempre rappresentative del clima culturale di allora.

L’istruzione tecnica alla Mostra autarchica
del minerale italiano, Roma 1939
(Palombi Editori)

Per approfondire alcuni dei temi trattati in questo volume, che guida il lettore aiutandolo a districarsi nella moltitudine di materiali impiegati negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, a conoscerne le caratteristiche e a confrontarsi con le problematiche che manifestano oggi, rivolgiamo qualche domanda ad uno degli autori, l’architetto Marco Pretelli, professore ordinario di Restauro Architettonico dell’Ateneo di Bologna che abbiamo avuto il piacere di incontrare.

Quali obiettivi vi eravate posti con questa pubblicazione?

La pubblicazione nasce a valle di un lungo lavoro di ricerca, avviatosi attorno al 2010, quando sia il gruppo bolognese, sia quello veneziano, hanno iniziato a indagare, su binari paralleli, sui temi dell’architettura del ventennio. La constatazione da cui si partiva era che, ormai, quell’enorme stock costruito, realizzato ben oltre mezzo secolo prima, era giunto a quello che è un punto di svolta per tutti gli edifici contemporanei, costruiti adottando tecnologie post-tradizionali (tra tutte, l’impiego del cemento armato per le strutture); e che nei numerosi esempi di restauro di cui venivamo a conoscenza, oltre ad altri, emergeva la questione della totale ignoranza, da parte dei progettisti, di cosa rappresentassero quei materiali, quasi sempre sconosciuti, con i quali essi si trovavano ad avere a che fare.

Si sa, se una cosa è sconosciuta, è priva di valore (il giudizio di valore prevede che vi sia coscienza e conoscenza di ciò che si giudica). Esito di un approccio basato su queste premesse, era la sostituzione indiscriminata di quei materiali, di cui poco si sapeva e che, soprattutto non si sapeva come trattare. Nel corso di quelle ricerche è iniziata la raccolta delle informazioni sui materiali, cosiddetti autarchici; e l’idea del volume, utile non solo a conoscere ma anche a intervenire, è venuta fuori mano a mano, mentre le informazioni si accumulavano…

Ferrofinestra accostato a vetrocemento,
Dispensario Antitubercolare di Alessandria,
Ignazio Gardella (foto di S. Di Resta, 2010)

A ben guardare, non tutti i materiali descritti nel vostro libro furono ideati nel periodo dell’autarchia, né furono ideati in Italia, quali criteri avete seguito nel compiere la vostra selezione?

È proprio così: la stagione autarchica inizia molto prima di quanto la storiografia non insegni: come scrivi tu, già all’inizio del Ventennio il governo fascista decise misure economiche tese a privilegiare la produzione interna (politica diffusa all’epoca non solo in Italia) e ad avvantaggiare la nascente industria nazionale; con esiti non sempre lineari e prevedibili, certo; ma è sicuro che questa scelta ebbe un effetto significativo, in termini di proposte industriali. È altrettanto vero che, in alcuni casi, furono semplicemente adottati materiali “inventati” in altri contesti (si pensi al linoleum) che, però, potevano essere prodotti in Italia con risorse “proprie”. I criteri che ci siamo dati discendono da due considerazioni principali: l’effettivo impiego di tali materiali, del tutto nuovi nel panorama edilizio del nostro Paese, nelle architetture del secondo periodo del Ventennio fascista, quando ormai la scelta verso lo “stile nuovo” era stata fatta ed era dominante nel panorama nazionale; e la presenza degli stessi nei numerosi manuali e cataloghi di prodotti “autarchici”, pubblicati soprattutto a partire dagli anni Trenta.

Abbiamo volutamente tralasciato alcune categorie di prodotti, quali ad esempio i solai in laterocemento (perché si tratta di una nicchia molto studiata e, per alcuni versi, rispondente a criteri che trascendono dai relativi problemi di conservazione), e siamo stati più “ecumenici” possibile: rispetto ad altre pubblicazioni già edite. La “nostra” raccolta è non solo numericamente molto più ampia, ma anche “filologicamente” più corretta, in quanto basata sulla pubblicistica del periodo e sull’esame “a vista” di numerosi edifici.

Ossidazione della ringhiera e della camicia
in Similoro nella Facoltà d’Ingegneria
dell’Università di Bologna,
Giuseppe Vaccaro (foto di M. Pretelli, 2020)

Fino a che punto sono praticabili nel restauro e nella conservazione del moderno le modalità adottate sugli edifici di un passato più remoto ed in particolare sui materiali con cui furono realizzati, generalmente di origine più vicina alla natura e meno legati a produzioni di carattere industriale?

Dal punto di vista metodologico, io ritengo che non vi sia alcuna differenza tra il restauro di un edificio del Cinquecento e quello di un’architettura del Moderno. Si tratta di indagare l’oggetto, di approfondire le conoscenze generiche già ottenute sullo specifico oggetto, di puntare alla riduzione delle perdite e distruzione dei materiali e di lavorare per sovrapposizione di strati, facendo in modo che, per quanto possibile, lo strato del nostro tempo “si sovrapponga a”, non sostituisca quelli precedenti. Dal punto di vista operativo, però, le cose diventano immediatamente più complesse: si può riassumere la questione dicendo che, nell’architettura tradizionale, l’operatore lavora su oggetti le cui logiche costruttive, strutturali, di finitura sono note e, in genere, ben collaudate. Quando si lavora invece sulle architetture di questa epoca, emerge subito quello che è il principale problema: che si tratta di edifici realizzati con un certo spirito di sperimentazione, impiegando materiali con caratteristiche di durata e di resistenza che, abbiamo compreso nel corso di questi decenni, sono molto lontani da quanto i progettisti di allora pensavano (si pensi solo alla definizione “pietra liquida”, che era stata affibbiata al cemento armato, ritenuto affidabile quanto il materiale litico; e a quel che è emerso, circa le problematiche di conservazione, negli ultimi 40 anni).

Lo sperimentalismo che ha segnato quell’epoca è anche la causa della varietà enorme di materiali e della nostra ignoranza su come essi fossero prodotti, posati in opera e come funzionassero. E allora è chiaro che agire su quel patrimonio richiede molta più attenzione e prudenza, forse anche molta più curiosità; e sperabilmente, anche il coinvolgimento di operatori di cantiere in grado di trattare tutti questi materiali in modo corretto.

Alcuni dei materiali e dei prodotti che trattate nelle schede (come l’Eraclit, la Cementite, la Faesite, il Ducotone) sono tuttora presenti sul mercato. Quanti di questi materiali, oltre ad aver conservato la denominazione commerciale originaria, mantengono ancora caratteristiche tecniche tali da essere adeguati a sostituzione o integrare i materiali di allora? E fino a che punto può essere corretto e praticabile replicare materiali usciti di produzione con le stesse tecniche di allora o con nuove modalità?

Fratturazione, mancanza e degradazione
differenziale del Termolux, Istituto Tecnico
Industriale di Forlì, Arnaldo Fuzzi
(foto di G. Favaretto, 2018)

Bella domanda. Non credo di poter dare una risposta in grado di risolvere la questione in maniera definitiva. Diciamo che, entro i limiti dati dai singoli problemi, obiettivo di qualsiasi intervento di restauro dovrebbe essere la conservazione della materia esistente, non la sua sostituzione con equivalenti. E che dunque non mi sentirei di consigliare tale pratica anche se dovessimo riscontrare che i prodotti di allora e quelli contemporanei sono perfettamente equivalenti (e non lo sono, per varie ragioni che non sto qui a elencare; ma si pensi solo all’impiego ampio di amianto che si faceva allora, nel periodo “eroico” di tale materiale; il che apre ad altri ordini di problemi, come è evidente).

In generale, però, i prodotti contemporanei hanno mantenuto gran parte delle caratteristiche di quelli di allora (dobbiamo considerare che, tra quelli schedati, solo pochi sono ancora reperibili in commercio; ci siamo posti la domanda “perché” e la risposta che ci siamo dati è che la ragione di destini così diversi non può che dipendere dall’effettiva rispondenza di alcuni, più che di altri, alle esigenze dell’edilizia contemporanea); e che, se il progettista si trovasse nella necessità di sostituire gli originali, l’impiego degli omonimi sarebbe da preferire a quello di altri prodotti, anche in relazione alla delicatezza di interventi che coinvolgono edifici con caratteristiche geometriche e di superfici molto labili, che possono essere “guastati” facilmente, facendo scelte sbagliate. Ma, torno a dirlo, la risposta alla domanda non può essere semplice, né univoca.

In chiusura di questa presentazione ci sentiamo di poter affermare con sicurezza che la qualità degli interventi che si vanno a realizzare sui manufatti costruiti durante il “Ventennio” dipende dalla capacità di riconoscerne il valore non solo economico da parte di chi li possiede (privati cittadini o pubbliche istituzioni), dal bagaglio culturale e degli architetti e degli ingegneri incaricati di progettare e dirigere questi interventi e dalle conoscenze possedute da chi li esegue materialmente, tutti aspetti che questa pubblicazione potrà contribuire ad accrescere.

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