Dallo schizzo alla realtà aumentata come comunicare un progetto
F. M.
Una riflessione intorno alla rappresentazione del progetto architettonico
Il tema della rappresentazione in architettura, negli ultimi anni si è sempre più focalizzato, in modo fuorviante, sul suo carattere visivo e di marketing piuttosto che sul suo ruolo di strumento di comprensione e di costruzione dello spazio. Questo tipo di approccio fa parte di una più vasta tendenza in atto, propria della nostra epoca, che vede prevalere la dimensione comunicativa che investe tutti gli elementi della percezione umana e che, applicata al nostro settore, può incidere in modo deformante nell’ambito disciplinare. L’architettura è semplicemente una risposta a esigenze di trasformazione e miglioramento del nostro spazio fisico. Per poter assolvere pienamente alla sua funzione è, perciò, necessario che il progetto sia ben radicato nel contesto reale che lo ha determinato e che si misuri con esso. Da questa considerazione consegue che l’immagine (non la forma) dovrebbe essere uno degli aspetti marginali del progetto stesso e mai prevalere sui suoi contenuti (come oggi spesso accade). Questo eccesso di apparenza è reso credibile (se non determinato) da strumenti di rappresentazione estremamente sofisticati che sembrano rendere possibile l’annullamento del confine tra il reale e il virtuale. Spesso progetti banali vengono trasformati in architetture affascinanti così come soluzioni che non hanno alcun fondamento tecnico finiscono per apparire possibili. Le potenzialità che vengono offerte oggi agli architetti, a partire dall’evoluzione dei programmi di rappresentazione, possono essere una straordinaria risorsa se utilizzate per rendere più profondo il pensiero architettonico e arricchire all’infinito le sue potenzialità, ma senza sostituirsi ad esso.
Una riflessione attenta sul tema della rappresentazione, perciò, va al di là di una semplice disamina tecnica, per investire, piuttosto, il senso stesso del nostro operare e indagare i modi per far uscire la nostra professione dagli equivoci che si sono sedimentati nel tempo attorno ad essa. In questi ultimi decenni il lavoro di architetto, inseguendo modelli anglosassoni, si sta gradualmente trasformando in un’attività imprenditoriale (sempre più al servizio del mercato economico - finanziario e sempre meno a tutela degli interessi della comunità) e, contemporaneamente e simmetricamente, sembra cercare una propria nuova dignità culturale in una dimensione “artistico-creativa” che non gli appartiene (se non come parte di un tutto) e che ne rende sovrastrutturale il compito (quindi superfluo). Le alternative che sembrano rimanere aperte per il nostro futuro sembrano essere, da una parte, il progetto come merce, dall’altra, la fuga verso il disegno fine a se stesso.
Eppure proprio in Italia esiste la straordinaria tradizione dell’architettura come “mestiere”, che pure ha costituito per secoli un nostro tipico fattore identitario, di cui sembra si stia smarrendo la memoria.
È una tradizione professionale che affonda le proprie radici in una profonda conoscenza delle esperienze e delle tecniche già consolidate, che conserva la sua dimensione artigianale e che si arricchisce continuamente con un processo di accumulo di esperienze successive. Nessuna conoscenza è definitiva e tutto deve ancora essere inventato, per cui ogni acquisizione viene rimessa in discussione attraverso un’intensa attività di sperimentazione e di aggiornamento. Proprio questo approccio di continua correzione delle scelte nel processo di produzione, rende la rappresentazione uno strumento ancora più prezioso e necessario nel percorso progettuale purché riesca a mantenere quella flessibilità e duttilità che le consente di adattarsi alle varie fasi del progetto e di accompagnarlo. Sin dall’inizio del processo progettuale la rappresentazione costituisce, infatti, l’unico modo per fissare il pensiero del progettista trasformandolo da fatto immateriale in un qualcosa di percepibile e di valutabile, da intuizione soggettiva in dato oggettivo e trasmissibile. La indefinibile materia dei pensieri e la variabilità delle caratteristiche dei soggetti pensatori impedisce di definire, a priori, i modi, le forme e la natura dei possibili tipi di rappresentazione da utilizzare. Una nota scritta, uno schizzo, un frammento di carta o un grumo di plastilina, tutto può essere utile a fissare il pensiero che sfugge e a dargli permanenza, a oggettivizzarlo, a estrarlo dalla mente per porlo davanti agli occhi di chi lo ha pensato, a trasformarlo in fatto reale, tangibile.
La rappresentazione in questa fase è semplice strumento di memorizzazione e di oggettivizzazione.
Da questo momento il pensiero architettonico inizia ad esistere e a diventare materia: dallo spunto iniziale il progetto evolve con un lavoro continuo di rielaborazione della rappresentazione lavorando sulle prime tracce dell’idea per consentire allo stesso progettista la comprensione dell’intuizione iniziale e dei suoi potenziali sviluppi. Dapprima la rappresentazione, quindi, consente la scoperta e, successivamente, diventa strumento di consapevolezza del possibile utilizzo del materiale elaborato. Segue una fase in cui è necessario riordinare e razionalizzare i contenuti del progetto e, allo stesso tempo, di metabolizzarne le conseguenze logiche attraverso una attività di sistematizzazione durante la quale la rappresentazione diventa strumento di valutazione e scelta. Durante tutto questo processo la rappresentazione utilizzata è spesso incoerente, con frequenti passaggi da una tecnica all’altra seguendo l’esigenza di comprendere e controllare il progetto. In certi casi, può capitare che gli strumenti a disposizione non siano in grado di aiutare, e allora bisogna inventare, alludere, operando come in un laboratorio della conoscenza.
Nel 1973/74, lavorando con Franco Pedacchia e Vittorio De Donno al nostro progetto per la Thomas Cook di via Veneto, i cui riferimenti linguistici avevamo individuato nelle architetture delle avanguardie storiche (El Lisitki e Kurt Schwitters), di fronte a una spazialità di grande complessità con frammenti e travi sbieche che attraversavano il vuoto e in mancanza di strumenti informatici, le nostre uniche possibilità di rappresentazione (oltre a quelle tradizionali: piante, prospetti, sezioni) ci erano fornite dall’uso del cartone e del fil di ferro. La nostra immaginazione aveva già allora percepito la ricchezza linguistica che era implicita in questa cavità disarticolata, in questo spazio non geometrico, ma ci mancavano gli strumenti tecnici adeguati. Il rischio che si correva era quello della completa arbitrarietà delle scelte progettuali mentre noi, al contrario, volevamo realizzare uno spazio innovativo in cui la coerenza interna fosse rigorosissima. Per poter tenere sotto controllo il progetto abbiamo dovuto procedere per sommatoria di parti costruendo, manualmente e con tecniche assolutamente elementari, frammenti grafici e volumetrici, note e appunti che venivano continuamente corretti con un processo logico che ci ha consentito di pervenire al progetto finale per approssimazioni successive. In questo caso, alla verifica visiva sulle scelte che operavamo lungo il nostro percorso progettuale, si accompagnava una conoscenza manuale che ci consentiva di rafforzare i nostri strumenti critici. Questa necessità di verifica tridimensionale, ma anche di un rapporto tattile con gli spazi immaginati, ci è rimasta. In quella fase abbiamo anche percepito la inadeguatezza degli strumenti di rappresentazione a farci cogliere la sensazione di essere “dentro” gli spazi immaginati. Per l’architettura la tridimensionalità non è, infatti, sufficiente a esaurire la capacità di controllo sullo spazio progettato che non può essere valutato “dall’esterno”, come avviene con la scultura, ma deve essere anche percorso, attraversato. È necessario introdurre il movimento, la percezione dello spazio nel tempo con un processo di immersione totale all’interno di esso. Solo recentemente con l’utilizzo della “realtà aumentata” è stato possibile superare questo limite della rappresentazione. Memori dell’esperienza fatta, ancora oggi operiamo alternando note, appunti grafici, disegni a scale diverse, modellazione 3D, frammenti di plastici, dettagli costruttivi, trame e materie, accumulando (quasi contemporaneamente) informazioni apparentemente incoerenti sulle quali poi procediamo talvolta, in modo radicale, semplicemente cambiando rotta, oppure, se la strada appare promettente, operando le opportune correzioni al materiale elaborato e questo è anche il momento, comunque, della sottrazione intransigente e della sfrondatura del superfluo.
Schiattarella Associati, Moschea AlJabri, 2017, render VR 360 interno della sala (realizzazione LINEE FILMS)
La rappresentazione è, in questo frangente, strumento di verifica e di revisione critica, mezzo per ridurre tutto all’essenziale e ricondurre il materiale prodotto a una sintesi unitaria.
Nel momento in cui il materiale arriva a una prima sintesi, si pone il problema di riordinarlo per poterlo esporre alla committenza per il necessario confronto e le opportune verifiche. Per la prima volta l’attività da svolgere non è rivolta all’interno del gruppo di progettazione, ma si apre a interlocutori esterni e quindi la rappresentazione diventa racconto e per questa ragione deve trasformarsi in strumento di comunicazione. Questa è anche la fase in cui il progetto inizia a essere divulgato e questo aspetto sembra essere quello su cui si focalizza eccessivamente l’attenzione dei progettisti. La rappresentazione diventa narrazione, infatti, non solo delle qualità architettoniche in sé, ma anche delle capacità del progettista e partecipa a diffondere la sua storia professionale. Per questa ragione assume spesso il ruolo di mezzo di promozione, strumento di marketing, che come tale deve essere “memorabile”, sorprendente, originale. Talvolta si eccede in tagli delle inquadrature, tecniche di rappresentazione, effetti di luce che aiutano a definire una sorta di packaging, un confezionamento dell’opera che spesso prevale sulle qualità stesse dell’architettura. Sembra quasi che le immagini finiscano per diventare fini a se stesse dimenticando il loro scopo narrativo. Dal momento in cui il progetto arriva, di concerto con la committenza, alla sua definizione ultima, il ruolo della rappresentazione si trasforma ancora una volta mettendosi al servizio, come strumento tecnico, della necessità di descrivere tutti gli elementi utili a realizzare l’opera. Questo implica che il materiale elaborato deve essere trasmissibile e utilizzabile da chiunque (imprese e tecnici provenienti da ogni parte del mondo) e, per questa ragione, si deve attenere a standard internazionali con codificazione della lingua, della simbologia, dei cartigli, delle scale utilizzate, ma anche di ogni dettaglio, materiale eccetera. Ogni componente del progetto deve essere descritta in modo chiaro ed esaustivo poiché questa stessa rappresentazione assume una funzione contrattuale. È in questo momento, infatti, che esaurisce la sua funzione di supporto alla costruzione individuale di un pensiero e si trasforma in uno strumento di traduzione della attività progettuale, in un linguaggio globale secondo le regole dettate dal mondo della produzione industriale.
Amedeo Schiattarella SCHIATTARELLA ASSOCIATI
Dalle immagini ai filmati, la rivoluzione dei 360 gradi
Con un film, come con l’arte in genere, non si fa altro che rappresentare la realtà o quantomeno la percezione che si ha di essa. Quando si realizza un cortometraggio per comunicare un progetto si racconta una storia fatta di bellezza, umanità, emozione. L’architettura in un certo senso passa così in secondo piano rispetto a ciò che viene messo a fuoco dalla macchina da presa, ma raggiunge per contrasto un livello altamente superiore perché diventa indispensabile alla storia che stiamo raccontando, fotogramma dopo fotogramma. Riusciremo a immaginare certi film senza i luoghi, le città dove sono stati girati? E riusciremo a immaginare certi luoghi, certe città senza le architetture che ne costituiscono spesso l’identità stessa? Entrando nello specifico campo dell’architettura negli anni abbiamo assistito a una sempre maggiore presa di coscienza del valore che rappresentano le immagini per il racconto di un progetto, sia in una fase concorsuale sia esecutiva. Parallelamente a questo percorso sono stati implementati rapidamente quelli che sono gli strumenti più strettamente tecnici: da un lato i progressi informatici delle workstation per la gestione di modelli tridimensionali complessi e calcolo della fase di render e, da un altro, le attrezzature di riprese e riproduzione video. Solo per fare alcuni esempi che ci riguardano più da vicino, ricordiamo l’avvento dei droni che ha radicalmente stravolto le prospettive di racconto, i visori a 360 gradi che estremizzano il concetto di immersività nei progetti di architettura, la risoluzione di ripresa a 5K che consente una fusione tra immagine digitale e immagine reale, che fino a qualche anno fa era appannaggio esclusivo di produzioni cinematografiche hollywoodiane. Sempre più spesso viene richiesto dagli studi di architettura quello che si chiama VR360 o rendering sferico, gestibile come già accennato attraverso visori a 360 gradi o più semplicemente smartphone e tablet. Questa tecnologia permette di avere una restituzione immersiva nel progetto scardinando quindi quella distanza fra immagine stampata e profondità prospettiche. Sembra di assistere a quella rivoluzione nata dall’avvento del Cubismo in pittura, cioè l’inverarsi della quarta dimensione, quella del tempo. In maniera analoga la lettura del progetto di architettura si arricchisce e, a nostro parere, si completa riuscendo a restituire una nuova suggestione che “trasporta” letteralmente il progettista all’interno della sua opera. I prodotti realizzati con questi strumenti, nelle mani di un progettista, si traducono in una sempre maggiore efficacia nel presentare il proprio lavoro al cliente, e servono altrettanto in fase di progettazione – e questo succede spessissimo – al controllo attraverso le restituzioni spaziali del progetto nelle sue varie fasi di sviluppo, garantendo un’analisi prospettica ormai totale di ogni minimo dettaglio dell’opera che sarà realizzata. Tra la qualità del progetto e l’aspirazione alla comunicazione di una emozione, si individua il territorio di esplorazione del nostro lavoro che con queste modalità di rappresentazione, e inserendo in quel territorio storie, sensazioni e visioni, propone un’esperienza del progetto che sia immersiva ed emozionalmente rilevante. Crediamo fermamente che oltre alla restituzione globale del progetto si possa raccontare anche la “dimensione” umana del portato progettuale. Una riunificazione che da sempre appartiene alla sola mente del progettista prima che l’opera sia realizzata. Una riunificazione che apre scenari impensabili poiché di volta in volta racconta una delle infinite realtà possibili. In questo senso è una rivoluzione, che “impegna” chi crea e chi guarda, perché rende vivo ciò che prima si avvicinava alla vita.
Non ci soffermiamo qui a indicare i più recenti e utili software per generare immagini a 360 gradi, nonché i visori utili a utilizzarle, perché la tecnologia è in frenetica evoluzione e su internet si trovano facilmente tutorial ed esempi validi per addentrarsi in questo mondo, sia da un punto di vista amatoriale sia professionale. Accenniamo però che le immagini a 360 gradi o i virtual tour sono già superati da film a 360 gradi che permettono una sempre più spettacolare ed entusiasmante esperienza immersiva.
Riferimenti
Schiattarella Associati
http://www.schiattarella.com/
LINEE è una creative company specializzata nella narrazione filmica dell’Architettura. Nella nostra vita l’architettura è lo scenario, la location, il riferimento spaziale dove si svolge l’azione, mai il protagonista siamo e rimaniamo noi. Poiché con un film, ma con l’arte in genere, non si fa altro che rappresentare la realtà o quantomeno la percezione che si ha di essa. Quando sposiamo un progetto in LINEE quello che facciamo è trasformarlo in una storia da raccontare fatta di bellezza, umanità, emozione. ■
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