Così il Cretto si fa Land art. La grande opera di Burri sulla Gibellina terremotata

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La distruzione, la morte, le rovine. Da un dramma enorme può nascere l’arte. È quello che è successo a Gibellina, paese in provincia di Trapani. Nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1968 un terremoto rase al suolo il suo abitato. Mille morti, decine di migliaia gli sfollati. Il paese fu completamente abbandonato e ricostruito a 20 km di distanza, lasciando lì sulla collina case diroccate, muri e macerie. Nulla era più come prima. Il terremoto cancellò secoli di storia e gli abitanti si ritrovarono in una nuova realtà, senza passato. Ma nel 1985 l’allora sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, decise di pubblicare un bando per chiedere ad artisti e architetti di dare alla nuova Gibellina uno slancio culturale. Tra i personaggi che aderirono all’appello anche l’artista e pittore Alberto Burri. Dopo aver visto i ruderi, quasi con le lacrime agli occhi, decise di non intervenire nel nuovo abitato, bensì proprio su quelle macerie. «Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere», racconta Burri in un’intervista di più di 20 anni fa. «‘Qui non ci faccio niente di sicuro’, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Una stradina tortuosa, bruciata dal sole, si snoda verso l’interno del trapanese fino a condurci, dopo chilometri di desolata assenza umana, ad un cumulo di ruderi». Così nacque l’idea del Grande Cretto, un’opera di Land art tra le più grandi al mondo realizzata proprio al di sopra dell’area della vecchia Gibellina, andata completamente distrutta dal terremoto.
 
Il Grande Cretto di Gibellina - Boobax
 
Dal 1970 al 1976 Burri aveva realizzato alcune sue opere denominate Cretti, superfici di cellotex con l’aggiunta di colle, terre e impasto bianco. L’effetto prodotto è simile a quello di una terra argillosa crepata dalla siccità. L’artista ha realizzato anche grandi Cretti di 5 metri d’altezza conservati al museo di Los Angeles e in quello di Capodimonte. Nel 1985 decise di riprodurre le sue opere che lo hanno reso famoso sui ruderi di Gibellina, immaginando di traslare l’idea delle sue realizzazioni espositive su una superficie enorme (si calcola di circa 85mila metri quadri) e orizzontale. Burri decise di compattare le macerie, colare sopra cemento e trasformare quelle che un tempo erano strade nei tagli delle sue opere, come crepe nel terreno argilloso, crepe nei muri dopo un terremoto. L’opera riporta fedelmente non solo la conformazione delle strade ma anche la forma dell’abitato e i rilievi, come un sudario che si distende sulle forme del defunto. Camminando lungo i tagli, profondi poco più di un metro e mezzo, si ha l’impressione di spostarsi per una città alla quale hanno livellato l’altezza degli edifici che sono ora solo enormi blocchi di cemento, bassi, più bassi dello sguardo di un uomo. Nel 1989 la costruzione dell’opera si è interrotta per poi venire definitivamente completata solo nel 2015, con la realizzazione degli ultimi 20mila metri quadri. È visitabile percorrendo la Strada statale 119 di Gibellina nel tratto che interseca la riserva naturale integrale Grotta di Santa Ninfa, tra Gibellina e Salaparuta.
Il monumento solo apparentemente cancella il passato. Anzi, lo vuole conservare, come in una tomba. E impone sul luogo un silenzio armonico che trasporta il visitatore in una vera e propria esperienza metafisica. «Il Cretto di Gibellina di Burri non è solo un gesto umanissimo di pietas. Non si limita a commemorare poeticamente una tragedia», commenta Massimo Recalcati, psicanalista e saggista, autore del libro Alberto Burri, il Grande Cretto di Gibellina. «Esso mostra il valore profondo che accompagna l’azione dell’arte in quanto tale: la morte non è l’ultima parola sulla vita, la forma dell’opera salva il mondo dal puro orrore» 

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