Biennale di architettura “Reporting from the front”

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Una Biennale di Architettura diversa dal solito, stimolante e coinvolgente, quella voluta da Alejandro Aravena, architetto cileno di fama internazionale. Ha voluto che la “sua Biennale”, a Venezia, fosse dedicata non ai progetti stupefacenti di archistar ma all’edilizia quotidiana, mettendo in risalto chi, con scarsità di mezzi e difficoltà ambientali e logistiche, è riuscito a creare un’architettura di qualità, che migliori la qualità della vita di chi la utilizza.

 

            Ingresso Corderie - Foto: Ubaldo Castelli

 

Reporting from the front – ha scritto Aravena nel suo intervento per la presentazione della Biennale – “si propone di mostrare a un pubblico più vasto cosa significa migliorare la qualità della vita mentre si lavora al limite, in circostanze difficili, affrontando sfide impellenti. O cosa occorre per essere in prima linea e cercare di conquistare nuovi territori”.

Vorremmo imparare – ha aggiunto Aravena – da quelle architetture che, nonostante la scarsità di mezzi, esaltano ciò che è disponibile invece di protestare per ciò che manca. Vorremmo capire quali strumenti di progettazione servono per sovvertire le forze che privilegiano l’interesse individuale sul bene collettivo, riducendo il Noi a un semplice Io. Vorremmo venire al corrente di casi che resistono al riduzionismo e all’eccessiva semplificazione e che non rinunciano alla missione dell’architettura di penetrare il mistero della condizione umana. Ciò che ci interessa è capire in che modo l’architettura possa introdurre una nozione più ampia di guadagno: la progettazione come valore aggiunto e non come costo aggiuntivo o l’architettura come scorciatoia verso l’equità”.

Aravena – che dopo la laurea nel 1992 ha iniziato la sua carriera con progetti partecipativi di edilizia a basso costo, poi con progetti di infrastrutture, spazi ed edifici pubblici – ha quindi lanciato l’invito a tutti gli architetti che avessero qualcosa da dire su questo tema e ha raccolto ed esposto le esperienze che ha ritenuto più significative.

Anche le esposizioni dei singoli Paesi nei padiglioni nazionali si dovevano adeguare al tema proposto.

Ne è nata un’esposizione vivace e ricca di contenuti: 65 Paesi partecipanti, di cui cinque per la prima volta (Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles, Yemen) con 88 équipe di architetti impegnati nella mostra principale, “Reporting from the Front”.

È una Biennale che si rivolge agli architetti, proponendo interventi, modelli, materiali, ma anche alle istituzioni, sollecitandole a interventi a favore di una vita sociale migliore, infine a tutto il pubblico di visitatori, con un’esposizione comprensibile da tutti, legata alla vita quotidiana.

Uno dei temi dominanti è quello delle scuole: ne vengono presentate molte, nei luoghi più disparati, legate dal filo conduttore che la scuola è il punto di raccolta e formazione delle nuove generazioni, che consente di emergere da realtà sociali anche degradate o difficili. È quindi fondamentale creare un ambiente “invogliante” dove ci si trovi a proprio agio e si riesca a “fare comunità”.

Ne sono esempio la scuola costruita sulle Ande cilene da Elton e Léniz, che spinge i bimbi provenienti da quartieri molto degradati e violenti a rivolgere l’attenzione alla contemplazione della natura, come pure le scuole italiane di C+S, edifici semplici, gradevoli, trasparenti, posti in piccoli centri della campagna trevigiana e veneziana, in paesi degradati dalle fabbriche del “miracolo veneto” e dalle architetture prive di qualità: non grandi opere, ma ambienti coinvolgenti che rendono piacevole l’attività scolastica e stimolano l’apprendimento.

Altro tema affrontato è quello dell’inserimento nell’ambiente: due esempi significativi sono il ponte dello studio austriaco Marte.Marte.Architects, una semplice linea nel fondo di una valle alpina strettissima, che si fonde ed integra con il paesaggio, come pure il “Ring” di Josè Maria Sanchez Garcia, centro per sport correlato alla natura, un edificio ad anello, sospeso su pilastrini, che sembra volare nel bosco in cui è inserito.

Anche i rifiuti sono un tema presente nella Biennale di Aravena: come sfruttarli, come inserirli nel paesaggio in modo costruttivo e non disgregativo.

 

  Padiglione Grecia

 

Gli scarti ci accolgono fin dall’ingresso nell’Arsenale e nel padiglione principale ai giardini: un allestimento con cartongessi e supporti metallici derivanti dallo smontaggio della precedente Biennale, un riutilizzo suggestivo per valorizzare il rifiuto e farci meditare sull’argomento.

In mezzo allo spazio così realizzato una piccola scala a pioli, colpita da fasci di luce, vuole richiamare l’attenzione sul “punto di vista” da avere nella visita all’esposizione, così come l’archeologa Maria Reiche fece per studiare le pietre di Nazca, che viste da terra non avevano alcun significato. Una semplice scala le permise di intuirne l’essenza. Anche questa Biennale vuole sottolineare come con scarsità di mezzi, con l’inventiva si può fare di tutto.

Un esempio strabiliante è il parco indiano di Chandigarh, realizzato presso la città razionalista di Le Corbusier, da Nec Chand, assemblando e riutilizzando tutti gli scarti di cantiere, materiale di rifiuto, per creare sculture, arredi urbani, sistemazioni del terreno, in un giardino fantastico e strabiliante, anche se un po’ grottesco, che ha suscitato l’entusiasmo della gente del luogo, rendendolo uno dei luoghi più frequentati dal pubblico.

Il tema del recupero ambientale di una zona pervasa da rifiuti è quello della Vall d’en Joan, un’ex discarica di rifiuti solidi urbani, in Catalogna, trasformata nel parco urbano del Garraf, attrezzato per sport e attività all’aperto, ripopolato dalla flora e fauna locale, lavoro congiunto di ingegneria ambientale, geologia e agronomia.

L’inserimento nel paesaggio è la caratteristica dell’intervento di David Chipperfield per il centro visitatori delle rovine di Naga in Sudan, un’architettura semplice ma nello stesso tempo elegante e potente.

Grande attenzione è riservata ai materiali: si esalta l’utilizzo di quelli locali, “poveri”, presentando un incredibile struttura a volta in mattoni crudi e cemento, di Solano Benitez, paraguaiano, gli edifici in terra cruda della tedesca Heringer, le strutture in bambù del colombiano Simon Velez e quella lignea del Gabinete de arquitectura.

E ancora: studio dei fenomeni di traffico di massa, di agglomerati di persone per feste religiose indiane e conseguenti allestimenti provvisori, di zone urbane caotiche con traffico, mercati, snodi stradali e l’inserimento di elementi di miglioramento dell’utilizzo da parte delle persone, come il ponte pedonale a Durban in South Africa, che ha consentito la trasformazione del Warwick Triangle da zona pericolosa a zona vivace e frequentata in sicurezza.

L’attenzione è rivolta anche agli interventi su piccola scala che possono migliorare la qualità della vita: gli interventi cinesi negli hutong di Pechino, con la realizzazione di un ostello di 30 mq recuperando una vecchia corte generando social housing o quello di Baitasi, con una corte comune a due residenze, con inserimento di blocchi servizi, architetture “leggere” non invasive, di miglioramento della qualità della vita per gli abitanti dei centri storici.

 

Gabinete da arquitectura
Foto: Luisella Garlati

 

Raphael Zuber, svizzero, presenta una serie di modellini di edilizia residenziale dove la ricerca della forma vuole portare l’architettura a superare le classiche forma cubiche, creare geometrie simmetriche ma lungo assi insoliti.

I padiglioni nazionali: per primo quello dell’Italia, con l’allestimento di Tam e Associati, Taking Care, che propone l’architettura come servizio per la comunità, prendendosi cura dei luoghi e del bene comune. Il concetto viene illustrato attraverso 20 progetti che raccontano trasformazioni di spazi rivolti alla comunità, per creare nuove opportunità di vita e di aggregazione.

Il premiato padiglione della Spagna presenta il “non finito”, gli effetti della crisi economica che ha interrotto iniziative del boom immobiliare, con un allestimento sobrio in perfetta rispondenza allo spirito della Biennale 2016.

La Germania apre il suo padiglione, demolendo parte dei muri perimetrali con grandi squarci (che peraltro migliorano enormemente l’aspetto un po’ tetro del padiglione stesso) per dimostrare in modo concreto l’apertura verso l’immigrazione, che ha portato in Germania un numero rilevante di immigrati. Ci mostra poi alcune infrastrutture provvisorie e/o definitive per l’accoglienza dei rifugiati. È un padiglione che mostra una grande forza morale e fa onore al Paese per come sa affrontare un’emergenza sociale in modo concreto.

La Corea illustra il problema della mancanza di spazi edificabili di Seul, con l’utilizzo anche dei tetti.

La Gran Bretagna si concentra sulla casa del futuro, di cui propone analisi e modelli innovativi.

Il Padiglione Venezia presenta i progetti del concorso per il recupero dell’area del porto di Marghera, un susseguirsi di idee e rendering molto discutibili, che tutto sommato ci fanno preferire l’attuale skyline delle infrastrutture portuali ora dismesse.

Il giudizio complessivo è positivo: una Biennale piena di stimoli per tutti gli operatori dell’edilizia e per la classe politica, invitata e focalizzare gli obiettivi che rendano la vita dei cittadini migliore, utilizzando le risorse locali disponibili, anche senza spese e/o progetti faraonici. 

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